Sono riuscito a rimuovere il macigno più grosso della mia vita: ho chiuso nel più brillante dei modi un cerchio di sofferenza e di insoddisfazione, acquisendo una consapevolezza prima inimmaginabile
Ho iniziato a praticare ventotto anni fa, il giorno del mio ventesimo compleanno, a quattro mesi esatti dalla separazione dei miei, che per me fu una grande liberazione. Il rapporto con il babbo non era certo un idillio. Era quasi sempre assente, un po’ a causa del lavoro, un po’ per una sua incapacità a relazionarsi con noi in modo costruttivo. Negli ultimi tempi la situazione era degenerata: liti violente e scenate continue, il mio unico desiderio era che si allontanasse al più presto dalla mamma, da mia sorella e da me. Con noi si era sempre comportato in modo meschino e autoritario, il confronto e il dialogo erano inesistenti.
Ero molto giovane e, sicuro di essere sempre dalla parte del giusto, ogni occasione era buona per litigare. Sentivo che il babbo era la causa di tutti i miei problemi e i sentimenti che provavo verso di lui erano di odio e rancore.
Quando i miei si separarono, volente o nolente diventai il punto di riferimento per la mamma, che faceva salti mortali per permetterci di continuare a studiare, dato che il babbo non ci passava niente.
La situazione cominciava ad andarmi decisamente stretta: era difficoltoso per me andare avanti.
Un giorno io e la mia amica del cuore siamo stati invitati a uno zadankai: abbiamo iniziato a praticare, subito, affascinati da queste persone un po’ strane – non più di noi comunque – e da questa filosofia che, pensavamo, non faceva una piega.
Tornai a casa con una copia del Gosho di Capodanno. Quando arrivai alla frase: «Ma, a un attento esame, risulta che entrambi esistono nel nostro corpo alto cinque piedi; questo dev’essere vero perché l’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre e trascura sua madre» (RSND, 1, 1008), pensai: «È stato scritto per me! Questo sono io!» e, senza che me ne accorgessi, piano piano è cominciata una lenta trasformazione dentro di me.
Al mio primo corso estivo, conobbi tante persone che, come me, avevano problemi di relazione con il padre e decisi di chiedere un consiglio sulla fede, nel quale fui incoraggiato a recitare per la felicità di mio padre. Pensai che la persona con la quale avevo parlato non avesse capito niente di quello che gli avevo raccontato. Come potevo recitare per la felicità di un uomo per la cui morte non avrei provato alcun dispiacere?
Ma, come avevo già imparato a fare, provai a recitare Daimoku in questo modo, anche senza capire perché lo stessi facendo.
Dopo un mese circa, mi accorsi che il babbo, che non vedevo da circa un anno, mi seguiva in macchina. Ci fermammo, mi invitò a cena e riuscii a dirgli tutte le cose che non mi andavano bene, gli errori che secondo me aveva fatto; mi sentii alleggerito di un peso.
Dopo, sparì di nuovo.
Questo episodio fece iniziare a praticare la mamma. A dicembre del 1983 ricevetti il Gohonzon e iniziai davvero a costruire il mosaico della mia vita, tessera su tessera, esperienza dopo esperienza: lavoro, attività, casa, amore. Tutto si andava mettendo a posto, anche se continuava a rimanere una zona vuota: il babbo era scomparso dalla nostra vita e nessuno sapeva dove vivesse e cosa facesse.
È vero, avevo il Gohonzon, ma un figlio ha comunque bisogno di sentirsi le spalle protette, di volere un confronto, di voler condividere le sue realizzazioni o i suoi insuccessi con qualcuno che però non c’era: così imparai a farne a meno. Grazie al mio ottimismo guardavo il mosaico che continuavo a costruire giorno dopo giorno, attento a ciò che c’era piuttosto che a quello che mancava.
Avevo smesso di odiarlo e non soffrivo poi più di tanto; sentivo che stavo andando verso la realizzazione finale, anche se non sapevo quando sarebbe successo.
Nel 2003, praticamente vent’anni dopo, il babbo chiamò me e mia sorella: aveva avuto dei seri problemi di salute e voleva vederci. Fu un incontro freddo, distaccato, che mi lasciò insoddisfatto e con molto amaro in bocca. Evidentemente non eravamo pronti, o almeno io non ero pronto. In fondo al cuore sentivo che lui non lo meritava e che non mi meritava. Pazienza. Tuttavia ci dette il suo numero di cellulare: può sembrare una cosa da niente ma, conoscendolo, era tantissimo. Avevo un contatto e non potevo più nascondermi dietro a scuse banali.
Così ogni tanto lo chiamavo, gli mandavo qualche messaggio, ma non rispondeva. Pazienza, stavo ancora costruendo il tempo della realizzazione.
Il presidente Ikeda ci incoraggia sempre a ripagare il debito di gratitudine verso i genitori; per me era praticamente impossibile essere grato a quest’uomo che con me si comportava in un modo che sentivo di non meritare. Mi rendevo conto che in fondo non mi abbandonava l’idea e la fiducia che prima o poi sarei riuscito a trasformare questa situazione.
Pensando che il giorno del suo settantesimo compleanno, nel 2004, potesse essere il momento giusto, lo invitai a pranzo, ma niente, ancora discorsi vuoti, ancora non voleva ascoltare, ancora non mi voleva.
Pazienza, ancora pazienza. Continuavo a chiamarlo, senza mai ricevere risposta.
Anche l’anno scorso gli inviai un messaggio per il suo compleanno: questa volta mi richiamò dopo dieci minuti, urlandomi al telefono una serie di frasi sconnesse e riattaccò prima che potessi rispondere. Ero in ufficio, mi scappò da ridere, pensando che fosse impazzito e non me ne curai più di tanto.
Qualche mese dopo mi chiamò, sempre con quel suo modo rabbioso, dicendomi di essere all’ospedale e che potevo andare a trovarlo. La sera andai con Alessandro, mio compagno da quindici anni, e a modo suo, riuscì a chiedermi scusa. Questo mi restituiva tutti gli anni non vissuti. Era come se fossi riuscito in un attimo a premere un interruttore che illuminava una strada nuova.
Da quel giorno è stato un concentrato di situazioni impensabili: seppi che mio padre era invaso dalle metastasi e conobbi dopo ventotto anni Monica, una dei tre figli della donna con la quale lui aveva vissuto in tutti questi anni e con la quale è nato un bellissimo rapporto, come se ci fossimo conosciuti da sempre. Infine, ho incoraggiato mia sorella a riavvicinarsi a lui, cosa che le è riuscita perfettamente. Sono riuscito a parlare con lui, accettandolo per quello che era ed era sempre stato, rendendomi conto che, proprio grazie a questo suo modo terribile di essere, avevo iniziato a praticare, diventando quello che sono oggi.
Ho sentito per la prima volta una gratitudine vera e incondizionata: ho percepito che veramente avevo deciso di “scegliere” lui come genitore per poter compiere il mio percorso, la mia missione.
Il primo di settembre è morto, e una volta in clinica io, insieme ad Alessandro e Monica, siamo riusciti anche a ridere e a sdrammatizzare.
Sono riuscito a rimuovere il macigno più grosso della mia vita: ho chiuso nel più brillante dei modi un cerchio di sofferenza e di insoddisfazione, acquisendo una consapevolezza prima inimmaginabile. Ho provato il potere di Nam-myoho-renge-kyo. Questa è la trasformazione di tutta la mia esistenza e dipende unicamente dal lavoro che giorno dopo giorno il Daimoku ha fatto nella mia esistenza. La sua perdita mi commuove, così come il fatto di essere riuscito a sentire per la prima volta in modo così chiaro, limpido e puro la grandezza e il potere infinito che è racchiuso nella vita.