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Davanti a un bivio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:37

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Davanti a un bivio

Marisa Farano, Bologna

Dovevo scegliere se andare verso la vita o no. Una voce dentro mi suggeriva di farla finita, mi derideva, mi diceva che la mia pratica era una mera illusione

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Dovevo scegliere se andare verso la vita o no. Una voce dentro mi suggeriva di farla finita, mi derideva, mi diceva che la mia pratica era una mera illusione

Sono pugliese, ho sessantun’anni e nella mia vita ho affrontato tante circostanze avverse. Nell’84, dopo un matrimonio difficile durato quindici anni, la separazione da mio marito: se ne era andato con la mia migliore amica, lavandosi le mani del nostro unico figlio, allora quattordicenne, e di me.
A Manfredonia, il mio paese d’origine, a soli trentacinque anni di età ero “la separata”, una che non doveva più chiedere niente alla vita, né aspettarsi niente. In quella situazione l’incoraggiamento di mia madre fu: «Figlia mia, la tua vita è finita, ora verrai tutti i giorni in chiesa con me».
In quello stesso periodo subii voltafaccia e tradimenti perdendo, in un colpo solo, tutti i punti di riferimento affettivi.
Questi eventi dolorosi fecero esplodere la mia depressione latente e una lacerante e terribile rabbia distruttiva, rivolta non solo verso me stessa ma anche verso chi mi aveva fatto del male, e purtroppo anche verso Alessio, mio figlio, il quale, ovviamente, ricambiava. L’idea del suicidio non mi era nuova. Quando avevo sette anni morì mio padre e da quel momento vissi nel terrore di perdere anche la mamma, che ne soffriva molto. Quando mi assaliva il pensiero che anche la mamma potesse morire, mi veniva il desiderio di morire anch’io. Così, inconsciamente, mi ero caricata sulle spalle la responsabilità della sua felicità, e mi ero assunta quel compito con tutta me stessa.
Nel dicembre dell’85 l’incontro con Nam-myoho-renge-kyo, a Milano, dove mi ero recata a trovare un’amica. Tornata in Puglia cominciai a recitare questa “cosa strana”: ero l’unica nella mia provincia e i membri più vicini erano a cinquanta chilometri di distanza. Mi trovavo a un bivio: affogare trascinando con me mio figlio Alessio o lottare con tutta me stessa. Grazie all’incontro con il Buddismo e all’incoraggiamento dei miei compagni di fede, decisi di combattere. Mi dedicai strenuamente allo shakubuku, allo studio, alle attività buddiste, così come mi veniva consigliato, per trasformare la rabbia, la frustrazione e la depressione che mi opprimevano.
A distanza di poco, nella mia cittadina si formò un gruppo del quale divenni responsabile, e io venni additata come “la separata che tiene le messe nere in casa”; accusai il colpo ma non mi lasciai influenzare.
Vivevo una situazione di scissione interiore: da una parte mi ero lanciata nella pratica con tutte le mie forze; dall’altra avevo, già da qualche mese, cominciato ad acquistare e mettere da parte confezioni di Valium per suicidarmi, prima o poi, come rimedio estremo alla depressione, al dolore e alla profonda solitudine.
Alessio, dopo tre anni, lasciò l’università, e trascinava le sue giornate a casa, pretendendo continuamente denaro e l’uso della mia auto… di lavorare neanche a parlarne. I litigi erano all’ordine del giorno, anche se il nostro rapporto rispetto al passato era molto migliorato. Leggevo e rileggevo una frase del Gosho Il reale aspetto del Gohonzon: «Una donna che fa offerte a questo Gohonzon attira la felicità in questa vita, e nella prossima il Gohonzon sarà con lei e la proteggerà da ogni lato, a destra e a sinistra, davanti e dietro. Come una lanterna nell’oscurità, come un forte braccio che ti sostiene lungo un sentiero infido, il Gohonzon ti circonderà e ti proteggerà, signora Nichinyo, dovunque tu vada» (RSND, 1, 738). A questo punto decisi di cominciare una psicoterapia, trovai una dottoressa di grande valore umano e professionale, e contemporaneamente chiesi un incoraggiamento nella fede. Mi aspettavo una ricetta, qualcosa di preconfezionato, del tipo “recita due o tre ore di Daimoku al giorno”, ero già pronta a metterla in pratica e invece mi fu consigliato di occuparmi del mio benessere psicofisico e liberarmi del senso di colpa che mi impediva di rendere Alessio autonomo. Uscii da quell’incontro disorientata, ma decisa a mettere in pratica quanto mi era stato consigliato. Cominciai a recitare Daimoku determinando di trovare il coraggio, la forza e la serenità necessarie per affrontare Alessio.
In capo a qualche mese riuscii a parlargli, spiegandogli che l’unica soluzione per il suo futuro era l’autonomia economica, cercando di fargli capire che la mia decisione era frutto di un amore sconfinato nei suoi confronti, che mi costringeva a separarmi da lui: doveva andare via di casa per cercarsi un lavoro. Gli detti una settimana di tempo. La sua reazione fu forte, mi urlò che mi odiava, che ero una madre snaturata e che non l’avrei mai più rivisto. Dopo qualche giorno, tornando dal lavoro, mi accorsi che era partito.
Grazie al Daimoku ero serena. Tre giorni dopo mi chiamò per informarmi che era da suo padre, e che lavorava con lui, rassicurandomi che aveva compreso il mio gesto d’amore e che anche lui mi voleva un gran bene.
Intanto proseguivo nel mio percorso di fede con la responsabilità di capitolo: incoraggiavo le persone, visitavo i membri a casa macinando chilometri tra l’appennino Dauno e il Gargano, da sola. Però, in netta contraddizione con la dedizione verso il Buddismo e le persone che mi circondavano, manifestavo scarsa cura e amore per me stessa: continuavo ad accumulare boccette di Valium; la depressione, i sentimenti autodistruttivi, erano profondi e pressoché costanti.
Ero nuovamente a un bivio: dovevo scegliere se andare verso la vita o no. Buttai via il farmaco accumulato negli anni e le mie reazioni furono violente. I “demoni” arrivarono in forze: quando recitavo Daimoku, una voce dentro mi suggeriva di farla finita, mi derideva, mi diceva che la mia pratica era una mera illusione; una forza oscura, inoltre, mi spingeva verso il balcone, e dovevo esercitare un forte autocontrollo per dominarla. Chiesi a mia madre di venire a stare qualche giorno da me, ma dopo un giorno andò via, aveva le sue cose da fare… Lei, la persona alla quale avevo dedicato la mia vita per tanti anni, mi abbandonava!
Dopo tre giorni, però, continuando a recitare Daimoku, iniziai a stare meglio; quel che in un primo momento avevo vissuto come un tradimento, lentamente si trasformò in una nuova consapevolezza. Compresi che fino ad allora avevo vissuto per mia madre, per mio marito, per mio figlio: ora potevo finalmente smettere di fare la comparsa e diventare protagonista della mia vita. Perfino io potevo essere un Budda!
Mentre cresceva in me il desiderio di avere una vita più stimolante, di pari passo aumentava il mio disagio nel vivere nel mio paese. Desideravo da tempo andare via, ma dove? Alessio nel frattempo non lavorava più con il padre e si era trasferito a Bologna. Qualche mese dopo, egli mi propose di trasferirmi da lui, in quella città che conoscevo come viva e stimolante; in verità, ci avevo già fatto un pensierino, e il suo aiuto fu preziosissimo.
Mia madre mi chiese di non abbandonarla, di aspettare la sua morte prima di prendere qualsiasi decisione; le chiarii che non ero figlia unica (ho due fratelli), inoltre, per fortuna, la sua salute era ed è buona, considerata l’età: novantacinque anni.
La vita in questa città è ciò che desideravo da tempo; sono sei anni che vivo a Bologna e insegno in una scuola primaria. Ho fatto una scelta definitiva, mi sono comprata la casa e oggi con Alessio ho un rapporto splendido, il meglio che una madre possa desiderare.
Sono stupita e felice del cambiamento che, negli anni, si è verificato nel rapporto con mia madre, che oggi mi incoraggia e sostiene nelle mie scelte, mentre io sono sempre più capace di vivere pienamente la mia vita, libera dai sensi di colpa e dall’angoscia che mi avevano tenuta prigioniera per tanto tempo.

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