Pur praticando un insegnamento che si basa sulla consapevolezza che tutte le persone hanno pari valore in quanto ognuna possiede la natura di Budda e ha il suo posto speciale e indispensabile nell’universo, a volte può succedere di sentirsi superiori o inferiori a qualche compagno di fede. Perché? E come ciò che il Buddismo insegna e l’impegno attivo per metterlo in pratica può servire a trasformare questo apparente veleno in un ulteriore punto di forza per la crescita personale?
«Non possono esserci discriminazioni – scrive Nichiren Daishonin – fra coloro che propagano i cinque caratteri di Myoho-renge-kyo nell’Ultimo giorno della Legge» (Il vero aspetto di tutti i fenomeni, RSND, 1, 341). Con lo stesso spirito Daisaku Ikeda insegna che nel regno della fede tutti hanno uguale importanza e che la Soka Gakkai si è sviluppata grazie ai legami diretti fra le persone e non attraverso rapporti di gerarchia. Questo principio si applica anche nella vita in generale, poiché deriva dal fatto che ogni persona, che pratichi o meno il Buddismo, possiede il mondo di Buddità ed è meritevole di rispetto e considerazione. Benché il concetto appaia chiaro, non si può negare che ci siano circostanze, nella vita come nell’attività buddista, in cui capita di sentirsi al cospetto di altri in condizione di superiorità oppure di inferiorità. Tale sensazione, comprensibile in quanto umana ma non in sintonia con i princìpi buddisti, ove assecondata da un comportamento conseguente, sarebbe ovviamente dannosa per la crescita personale, e in prospettiva per il movimento di kosen-rufu. Qualche spunto di riflessione in questo senso può essere utile.
L’attività che svolgiamo nella Soka Gakkai, fra persone che abbracciano il Buddismo e che credono nella Buddità in tutti gli esseri umani, ci offre la possibilità di un allenamento ideale. Personalmente, avendo un carattere molto introverso che mi ha sempre reso difficili le relazioni con gli altri, generando problemi anche del tipo di quelli descritti, non appena iniziai a praticare il Buddismo ebbi la fortuna di sperimentare una particolare attività che nel tempo mi ha reso capace di vincere la timidezza e di maturare con le altre persone rapporti molto più distesi e soddisfacenti. Si tratta dell’attività di protezione (soka-han), che mi ha in un certo senso “costretto” a mettere sul serio in pratica l’insegnamento del mio maestro secondo il quale i membri sono estremamente preziosi e vanno protetti attraverso la cura affettuosa di ogni singola persona. Recitare tanto Daimoku e compiere azioni concrete a tale scopo mi è servito, da un lato a sentirmi profondamente al servizio dei membri e ad annullare così ogni senso di superiorità nei loro confronti, dall’altro a cancellare il corrispondente senso di inferiorità attraverso la crescente consapevolezza della mia capacità di proteggerli e dunque del mio valore. È in ogni caso utile chiedersi come emerge questa sorta di squilibrio comportamentale e in che modi può manifestarsi.
Una piramide rovesciata
Come sappiamo, la Soka Gakkai è un movimento internazionale che opera in questi tempi difficili, cioè l’epoca di mappo, per diffondere l’insegnamento del Budda al fine di stabilire le condizioni per l’avvento di un’epoca di pace e armonia fra gli esseri umani. Per conferire migliore efficacia alla propria azione essa si è data un’organizzazione, articolata in una serie di funzioni chiamate responsabilità. La struttura non è di tipo gerarchico, e per descriverla si usa l’esempio della piramide rovesciata, dove le responsabilità più “elevate” sono posizionate nel vertice basso della piramide mentre i membri si trovano sulla base posizionata in alto. Tale raffigurazione significa che i responsabili sono posti al servizio dei membri e sostengono il peso di tutta o di una parte dell’organizzazione stessa. Come ci rammenta il presidente Ikeda, l’unica differenza che esiste tra membri e responsabili è il particolare impegno che si sono assunti nei confronti del maestro nel momento in cui hanno accettato la propria responsabilità. Dal punto di vista della fede, infatti, i responsabili di qualunque livello sono uguali fra loro e sono uguali a ogni altro praticante. L’errore più banale che si potrebbe commettere, sotto questo aspetto, è di considerare i compagni di fede superiori o inferiori a seconda del livello di responsabilità. «Non pensate neanche per un istante – afferma Ikeda rivolgendosi ai responsabili – che la vostra posizione nell’organizzazione vi renda migliori degli altri o vi dia il diritto di guardarli dall’alto in basso. Chiunque si comporti in questo modo non è un mio discepolo» (NR, 451, 9). È evidente l’importanza di tenere distinti l’aspetto della fede da quello organizzativo per evitare ogni possibile equivoco di relazione. In modo un po’ meno banale, ma altrettanto sbagliato, quando abbiamo di fronte qualcuno che pratica da molto più tempo di noi, oppure da molto meno tempo di noi, può capitare di sentirci rispettivamente inferiori o superiori proprio nel campo della fede. Tuttavia, benché il tempo sia un fattore importante per lo svolgimento della rivoluzione umana di una persona, non è di per sé sufficiente a determinare la qualità della sua fede, poiché altri fattori sono in gioco: la determinazione, la costanza nella pratica e nello studio, il comportamento quotidiano, in sostanza il modo in cui questo tempo è stato impiegato. E, non ultimo, il bagaglio karmico individuale. Certamente un lungo periodo di pratica corretta risulta significativo in termini di esperienza, e non è un caso che ci si rivolga a fedeli di lungo corso per ricevere consigli nella fede. Ma ciò succede non certo perché l’esperienza accumulata li renda superiori o migliori, bensì per il semplice motivo che questa li aiuta a incoraggiare meglio se stessi e gli altri.
Nessun paragone
Il Buddismo insegna che la fede di cui occuparsi è la propria: diventare capaci di verificare i propri miglioramenti è davvero un beneficio importante. Il presidente Ikeda ci invita a essere severi con noi stessi e a non stancarci mai di lodare gli altri. È bene dunque che quando ci occupiamo dei compagni di fede, invece di perdere tempo a tentare di giudicarli, ci concentriamo nell’infondere loro fiducia e coraggio, e nell’assicurarci che ricevano benefici. Se davvero desideriamo realizzare kosen-rufu nel nostro ambiente dobbiamo innanzitutto costruirlo dentro di noi. Piuttosto che fare paragoni con gli altri è meglio puntare a superare i limiti interiori che ci imbrigliano, impedendoci di sentirci a nostro agio in mezzo alle persone, e a ogni tipo di persona. Nel romanzo di Lev Tolstoj Resurrezione, un personaggio afferma: «Ognuno deve credere al suo spirito, e allora tutti si ritroveranno uniti. Che ognuno sia se stesso e tutti saranno una cosa sola» (Mondadori, pag. 549). Più ci dedichiamo a costruire il nostro carattere, più aumenterà la fiducia in noi stessi e negli altri, più gioia proveremo nel vivere insieme e per i nostri simili. La difficoltà a sentirsi sullo stesso piano degli altri si trasforma con l’elevazione della condizione vitale. Rafforzare in se stessi il mondo di Buddità significa anche purificare la percezione dell’ambiente, poter osservare la sostanza delle cose al di là delle apparenze, e vivere le relazioni umane in modo più autentico e libero da convenzioni. D’altra parte, dedicarsi seriamente all’attività per gli altri è la causa profonda di un automiglioramento che si manifesta nello sviluppo della sensibilità verso la vita delle altre persone. Così è possibile creare anche una forte unità basata sulla fede, che oltre a essere fonte di felicità per tutti è un fattore indispensabile per il successo di ogni attività diretta a far conoscere il Buddismo.
Sentirsi parte
In fondo ogni tipo di impedimento si può ricondurre allo stesso errore di base: sentirsi separati, distinti da tutto e da tutti, dunque in fondo non credere davvero che in ognuno esista la Buddità, l’energia universale capace di unire i cuori. Questa illusione fondamentale, dalla quale nasce l’intera gamma delle sofferenze umane, per essere vinta richiede un impegno combattivo e costante, non basta vincerla una volta, occorre farlo continuamente. Interagire con gli altri, ci ricorda Ikeda, è fonte di gioia, ma per assaporarla non possiamo permetterci di arenarci su atteggiamenti superficiali. Se dedichiamo il nostro essere più profondo a kosen-rufu, possiamo sentire sulla pelle e nel cuore quello che già sappiamo: che non siamo soli e separati ma parte di un’unica entità, che siamo semplici tramiti di quest’unica Legge che muove l’universo, che in questo essere parti e tramiti fluisce la gioia, la comprensione, la saggezza, e che questo è il giusto modo e insieme lo scopo del vivere. «Poiché la morte è la stessa in entrambi i casi – scrive Nichiren Daishonin – dovresti essere disposto a offrire la tua vita per il Sutra del Loto. Pensa a questa offerta come a una goccia di rugiada che si unisce di nuovo al grande mare, o come a un granello di polvere che ritorna alla terra» (La Porta del Drago, RSND, 1, 891). La realtà ultima della vita è un eterno e infinito fluire di compassione. Dunque, se desideriamo unire il nostro tassello al grande mosaico dell’esistenza, che senso ha continuare a giocare a “tutti contro tutti”? La stessa energia scorre in tutta l’umanità, secondo un disegno naturale che non separa ma unisce. Osservandola con gli occhi del Daishonin, noteremo che la goccia che torna a unirsi al grande mare è davvero la più felice del mondo.
Preziosi compagni
L’uomo è un essere sociale, la vita umana si realizza nel rapporto coi propri simili. E dal momento che il Buddismo si occupa del modo corretto di vivere, è naturale che la rivoluzione umana non possa avvenire senza un continuo scambio con i compagni di fede. In altre parole, non si può progredire da soli, senza sostenere ed essere sostenuti. Le esperienze di fede testimoniano quanto questo aspetto sia decisivo nella vita delle persone. «Spero che tutti voi – scrive il presidente Ikeda – diventiate responsabili che condividono sofferenze e gioie con i vostri compagni di fede ai quali siete uniti da profondi legami. Spero che pensiate continuamente al loro benessere chiedendovi se hanno fame, oppure caldo, o se c’è qualcosa che li preoccupa. Vi prego di condividere con loro gioie e dolori» (NR, 292, 5). A dispetto di ogni apparente difficoltà relazionale, i compagni di fede sono per ciascuno di noi una vera e propria ricchezza, di cui possiamo godere vita dopo vita per l’eternità. Abbiamo soltanto bisogno di liberarci di certi modi illusori di sentire e vedere noi stessi e il mondo, di abbandonarli con serenità e di avere fiducia nelle parole del nostro maestro: «Avere nel mondo amici con cui condividere aspirazioni è qualcosa di veramente meraviglioso, è una fonte di forza e felicità. I nostri compagni più di ogni cosa ci spronano a migliorare, a elevare le nostre esistenze, e sono una fonte di sostegno e incoraggiamento nei periodi difficili. Com’è naturale apprezzare i nostri genitori, così dovremmo apprezzare anche i nostri preziosi membri e compagni nella fede. Una persona con tanti compagni del genere è davvero fortunata» (NR, 415, 7).