Quando per la prima volta vidi il Gohonzon provai un senso di protezione e serenità; era come se avessi finalmente ritrovato mia madre. I membri del gruppo mi telefonavano, mi incoraggiavano, cominciavo a non essere più una nullità per gli altri
Tanti anni fa, quando sentii parlare per la prima volta della filosofia buddista, ero seduto sugli scalini del Duomo di Grosseto, come tutti i giorni ubriaco fradicio con l’unico obiettivo che mi era rimasto: trovare il coraggio di farla finita. Ero completamente assente, anonimo e non riuscivo a relazionarmi con nessuno. Abitavo con mio fratello maggiore ma vivevo fra strade e stazioni. Finivo spesso nel reparto psichiatrico dell’ospedale da dove puntualmente scappavo.
Tutti i miei guai erano legati alla morte di mia madre avvenuta in un incidente stradale quando avevo sette anni. Mio padre rimase invalido e io fui affidato ai nonni materni che vivevano in campagna con i miei zii. Mio nonno mi adorava, ma un anno dopo ebbe un’embolia e si ridusse a un vegetale: da allora iniziò il mio calvario. La nonna e gli zii mi ripetevano che la mamma prima o poi sarebbe arrivata, io dovevo solo stare tutti i giorni all’incrocio “in fondo allo stradone”. Dalla mattina alla sera l’aspettavo e quando rientravo a casa in lacrime perché non era arrivata, venivo maltrattato e deriso solo perché piangevo.
Non avevo amici, vivevo in completa segregazione: raramente venivo mandato a scuola. Mio padre si risposò ma nonostante conoscesse la mia sofferenza prese con sé solo mio fratello minore.
Questa vita infernale continuò fino ai diciassette anni, quando mio zio mi scaraventò letteralmente in una discarica di rifiuti. Non avevo più una casa: provai a vivere per un po’ da mio padre, ma le cose con lui non andavano bene, provavo un rancore così forte che mi distruggeva. Decisi di andarmene e mi ritrovai di nuovo in mezzo alla strada, da dove mi tolse mio fratello maggiore. L’ho fatto soffrire moltissimo, perché scappavo continuamente. Volevo morire e per questo bevevo, mischiando alcol e psicofarmaci: fu a quel punto che conobbi il Buddismo. Iniziai a partecipare alle riunioni senza praticare. Quando vidi il Gohonzon per la prima volta provai un senso di protezione e serenità; era come se avessi finalmente ritrovato mia madre. I membri del gruppo mi telefonavano, mi incoraggiavano, cominciavo a non essere più una nullità per gli altri. Però il desiderio di farla finita non mi abbandonava.
Mi innamorai di una ragazza, ma quando mi rifiutò, la notte stessa cercai di farmi travolgere da un treno in corsa. Alcuni vigilantes mi tolsero dai binari subito prima che il treno passasse.
Il giorno dopo iniziai a recitare Gongyo: il mio responsabile di gruppo mi lesse una frase: «Più la notte è oscura, più vicina è l’alba» (RU, 1, 24). Tutte le mattine, prestissimo, andavo a fare Gongyo e Daimoku da lui. Sentivo una gioia immensa ed ero così felice che smisi di bere e di assumere psicofarmaci. Poi, per la prima volta in vita mia, trovai un lavoro. In quel periodo ho conosciuto tantissime persone che mi hanno voluto bene e a ventitré anni feci la mia prima festa di compleanno. A quella festa c’era la ragazza che sentivo di amare, avevo recitato tanto Daimoku per avere una storia con lei: tre giorni dopo divenne la mia ragazza.
Mi sentivo rinato. Anche se non ho mai saltato Gongyo e Daimoku, in quel periodo mi scontrai con ansie e paure: mancavo di stima in me stesso. La mia fidanzata ebbe gravi problemi familiari e dopo nove mesi ci lasciammo. Soffrii tantissimo. Chiesi un consiglio sulla fede dopodiché decisi di basare la mia vita solo sul Gohonzon. Iniziai ad avere una pratica costante dedicandomi sinceramente a kosen-rufu.
Divenni membro nel 1991, l’anno precedente alla visita del presidente Ikeda in Italia. Non lo incontrai ma ebbi occasione di fare un’attività di volantinaggio presso i Centri allestiti per la visita di sensei. Da questa attività emerse un sogno: volevo essere il primo nella mia città ad aprire un’agenzia per la distribuzione di volantini pubblicitari. Volevo realizzare tutto quanto per l’arrivo di sensei, così, in fretta e furia lasciai il mio lavoro. Nonostante molti mi dicessero di lasciare perdere un’attività così poco stabile, io andai avanti. Mi ritrovai sommerso da una montagna di debiti e con un pugno di mosche in mano.
Due anni dopo accettai la responsabilità di un gruppo che passò in poco tempo da due a trenta membri. Però, sul lavoro, niente di nuovo. Durante la successiva visita di Ikeda in Italia, nel 1994, decisi che dovevo assolutamente trovare lavoro. Nel Gosho lessi che «offrire al Budda l’unica ciotola di riso, da cui dipende il proprio sostentamento quel giorno, significa offrire la propria vita al Budda» (L’offerta del riso, RSND, 1, 998). Ripartii dallo spirito dell’offerta, e provai tanta gioia per quella sfida. Dopo un po’ il lavoro di volantinaggio iniziò a dare le prime soddisfazioni.
Nonostante tutto provavo una grande sofferenza, il rancore verso mio padre mi accompagnava come un’ombra. Mi posi due scopi ambiziosi: trasformare quel rancore in gratitudine, perché, come è scritto nel Gosho di Capodanno «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre» (RSND, 1, 1008), e contribuire all’apertura del Centro culturale di Grosseto. In seguito, la moglie di mio padre, che per me è come una seconda mamma, si ammalò di cuore e iniziai a prendermi cura di lei tutti i giorni. Mio padre, però, non voleva vedermi. A un certo punto arrivò la svolta: uscii da un incidente stradale quasi illeso. Mio padre venne in ospedale e da allora iniziò un meraviglioso rapporto di fiducia e apertura, così gli parlai di Nam-myoho-renge-kyo e del Gohonzon. Compresi che portava nel cuore una sofferenza più grande di lui dal giorno della morte di mia madre, le scelte riguardo alla mia vita ne erano state solo la conseguenza. Un anno più tardi, dopo tanti sforzi venne inaugurato il Centro culturale di Grosseto. Per me fu un traguardo raggiunto.
Quando l’anno seguente mio padre mi disse: «Sento che sto per morire, la cosa più bella che ho avuto nella vita è un figlio come te», io lo baciai e lui mi sorrise. Il 17 luglio di quell’estate spirò serenamente nel sonno, e da allora è come se fosse sempre al mio fianco.
La parte più oscura rimanevano le relazioni sentimentali: quando non ci si ama è difficile vivere un rapporto davvero felice con un’ altra persona a fianco.
Un giorno, recitando Daimoku spinto da questa sofferenza, ricordai la frase: «Più la notte è oscura, più vicina è l’alba» e mi chiesi: «Qual è l’alba per me?». Di lì a poco incontrai nuovamente la mia prima ragazza, ci siamo rimessi assieme e nell’ottobre 2010 ci siamo sposati. Adesso anche lei ha iniziato a praticare ed è membro della Soka Gakkai.
In soli tre mesi nonostante il difficile periodo economico sono riuscito a vendere bene la casa che mio padre mi aveva lasciato in eredità e questa vendita ha trasformato e risolto la nostra situazione economica. Oggi la mia agenzia ha vent’anni di attività e si è affermata.
A una delle ultime riunioni di discussione ho accompagnato sette ospiti, il gruppo sta crescendo e presto ne nascerà un altro. Due miei amici, all’ultima consegna dei Gohonzon, sono diventati membri. Ho tantissime persone che mi vogliono bene e mi dicono che le incoraggio perché non mi sono mai arreso di fronte agli ostacoli.
Di tanto in tanto mi piace tornare in quello stradone di campagna, in cui da piccolo cercavo mia madre. Nichiren in un Gosho dice: «Quando desideri vedermi, prega tutti i giorni rivolto verso il sole e una volta al giorno la mia immagine vi sarà riflessa» (Lettera a Niiike, RSND, 1, 915). Io, quando sono lì, guardo il sole e lo sento nascere in me. In questo sole c’è anche mia madre, che è felice con me.