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Senza aspettarsi niente in cambio - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 18:36

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    Senza aspettarsi niente in cambio

    L’offerta descritta nel Buddismo non è un’azione materiale: donare porta beneficio in profondità al donatore stesso. E la chiave di volta che permette di accumulare i tesori del cuore sta nell’atteggiamento con cui essa viene fatta

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    L’offerta descritta nel Buddismo non è un’azione materiale: donare porta beneficio in profondità al donatore stesso. E la chiave di volta che permette di accumulare i tesori del cuore sta nell’atteggiamento con cui essa viene fatta

    Nella letteratura buddista c’è un famoso episodio che ha come protagonista Shariputra o, in giapponese, Sharihotsu, uno dei dieci principali discepoli del Budda. Shariputra stava praticando la via del Bodhisattva da sessanta kalpa, quando un brahmano gli chiese un occhio. Shariputra glielo offrì, ma il brahmano, dopo averlo annusato, disgustato dall’odore, lo lasciò cadere e lo calpestò. Allora Shariputra interruppe la sua pratica di bodhisattva, regredì alla pratica hinayana e non riuscì a conseguire la Buddità.
    Si tratta di una situazione estrema: Shariputra, che è tanto determinato a praticare la via del bodhisattva da avere accumulato sessanta kalpa di azioni meritorie, offre un organo a chi ne fa richiesta e la sua offerta viene accolta con il massimo livello di ingratitudine che si possa immaginare. La sua reazione, il ritrarsi dal suo proposito iniziale a seguito di questo episodio, incontra quindi tutta la nostra comprensione. Tuttavia, attraverso un esempio così estremo, in cui sessanta kalpa di dedizione vanno in fumo in un attimo, viene messo in scena un principio universale: come non praticare la donazione.
    La reazione del brahmano, che distrugge con disprezzo ciò che gli è stato donato, manda in frantumi non tanto l’occhio di Shariputra, quanto la sua aspettativa di suscitare gratitudine nel destinatario dell’offerta. In sostanza, dietro l’offerta dell’occhio si celava un’aspettativa, un vincolo, una pretesa di suscitare gratitudine e apprezzamento in cambio dell’offerta. Ed è questa aspettativa, non dichiarata e inconsapevole, che fa fallire l’offerta di Shariputra. Quindi, se rovesciamo i termini del discorso da negativo in positivo, quando si offre occorre prescindere completamente dall’utilizzo che il destinatario farà del nostro dono. L’offerta si conclude nell’atto stesso di offrire, senza aspettarsi niente in cambio, senza calcoli e senza pretese. In altre parole, l’atto di offrire si esaurisce in se stesso. Se così non fosse, si ricade nel caso di cui è protagonista Shariputra.
    Questo “principio universale della donazione” mi è stato spiegato molti anni fa dal mio responsabile di gruppo. All’epoca andavo ogni mattina da una giovane donna a fare Gongyo. Praticamente la costringevo ad alzarsi presto, cosa che le riusciva assai difficile, per sperimentare i benefici di una pratica regolare. Dopo tre settimane di questa cura, un giorno non riuscii ad andare a casa sua e lei dormì beatamente mezz’ora in più. Ricordo ancora la condizione di irritazione e frustrazione che provai, unitamente al desiderio di rimproverarla aspramente per aver gettato al vento tre settimane di duro impegno da parte, soprattutto, mia per farla diventare un’assidua praticante. E lì mi è stato pazientemente spiegato dal mio responsabile che ero caduta nella stessa trappola di Sharihotsu, perché avevo offerto il mio aiuto in cambio di qualcosa che, oltretutto, era un obiettivo esclusivamente mio, neanche condiviso dall’ignara destinataria delle mie assidue attenzioni.
    Anche la pratica di shakubuku spesso è un terreno infido, in cui si scivola nella stessa modalità di offerta di Shariputra. Spesso si introduce qualcuno al Buddismo pensando, animati dalle migliori intenzioni, che praticando risolverà i suoi problemi. Quando chi lo riceve non reagisce come ci saremmo aspettati, si sviluppano dei sentimenti negativi, che rivelano la presenza, nel nostro paesaggio interiore, di precise aspettative. Se, dopo aver offerto qualcosa a qualcuno, invece di sentirci grati e radiosi, ci lamentiamo, rimproveriamo il destinatario dell’offerta o gliela rinfacciamo, siamo certi di aver inserito delle aspettative che ci hanno portato a ricadere nella stessa modalità descritta per Shariputra.
    Se invece l’offerta non contiene aspettative o richieste implicite, genera quella condizione di gratitudine e di profonda gioia che contraddistingue i tesori del cuore. Offrire il proprio tempo, il proprio denaro, la propria casa, la propria attenzione e partecipazione ai problemi altrui per realizzare kosen-rufu, significa seminare nel giardino della fortuna. Nel corso della vita possiamo utilizzare tempo e denaro per investire nel settore più redditizio che c’è, quello della buona fortuna, che non è mai sottoposto a fluttuazioni e crisi. La gioia più grande è seminare nel campo della fortuna, senza preoccuparsi del raccolto, senza calcolo e senza pretese. Il vero beneficiario di questa semina è chi la compie, perché porterà con sé questo capitale nell’eterno ciclo di nascita e morte. Perciò l’offerta è strettamente legata alla dimensione della fede. Se percepisco la vita in questi termini, all’interno di questo scenario, provo gratitudine per il mio maestro, che mi ha dato l’opportunità di incontrare il Gohonzon, trasformare il mio karma e accumulare buona fortuna. Questa gratitudine si concretizza nell’atto di offrire, atto per il quale provo gratitudine, perché è un’opportunità di ulteriore trasformazione del mio karma, del quale sono io stessa la beneficiaria.
    Offrendo, accumulo i tesori del cuore, che arricchiscono me. Come ha scritto Nichiren Daishonin ad Abutsu-bo: «Potresti pensare di aver fatto offerte alla torre preziosa del Tathagata Molti Tesori, ma non è così. Le hai offerte a te stesso» (La torre preziosa, RSND, 1, 264).
    È strano per noi pensare al dono in questi termini. Anche perché, nella nostra lingua, donare è un verbo transitivo, che trasferisce un bene da una persona all’altra. Il Buddismo, però, ci insegna che donare è, più profondamente, un verbo riflessivo, in cui l’azione di donare porta beneficio al donatore stesso. Per questo non ha alcuna importanza che cosa si offre, mentre è fondamentale “come” ciò avviene, con che spirito, con quale intenzione, in base a quale sentimento.
    Tempo fa parlavo con una persona che offriva malvolentieri la sua abitazione per le riunioni di discussione, ma continuava a proporsi per “accumulare buona fortuna”. Il problema è che la buona fortuna si accumula se si offre volentieri, dove “volentieri” è la causa e “la buona fortuna” è l’effetto. In questo caso, essendo “malvolentieri” la causa, l’effetto era un accumulo di lamentele.
    In fondo anche questo caso rientra nel “principio universale della donazione” descritto dall’esempio di Shariputra, perché l’offerta della casa prevedeva una contropartita in termini di buona fortuna. Invece, perché la buona fortuna si manifesti nella nostra vita, occorre fare offerte con la massima sincerità, senza aspettative o richieste implicite.
    Ci sono tanti esempi nella letteratura buddista relativi all’offerta sincera. La povera donna che possedeva solo i propri capelli e li vendette per accendere una piccola lampada in offerta al Budda, e vide la sua lampada ardere indefinitamente, anche quando quelle di tutti gli altri si erano ormai spente. I due ragazzi che offrirono una torta di fango al Budda e uno di loro rinacque come il grande re Ashoka e l’altro come la sua consorte. Sessen Doji, il ragazzo delle Montagne Nevose che si gettò in pasto a un demone per conoscere la seconda metà di un insegnamento buddista e fu salvato dal dio Shakra che gli rese onore per la sincerità del suo gesto. Sono storie che enfatizzano l’assoluta irrilevanza del bene che si offre, il massimo disinteresse nei confronti delle conseguenze dell’offerta e invece l’urgenza, lo slancio, la sincerità assoluta con cui avviene l’offerta stessa.
    In queste storie sono contenuti degli insegnamenti utilissimi per aiutarci a migliorare un aspetto fondamentale della fede, rivelandoci il modo in cui offrire è una causa di buona fortuna e benefici eterni e incommensurabili.
    Per quanto mi riguarda, sono molto grata al mio responsabile di gruppo che mi ha insegnato a fare tesoro dell’insegnamento contenuto nell’episodio che ha come protagonista Shariputra. Grazie a lui ho potuto partecipare alle offerte con gratitudine ogni anno, consapevole del fatto che il mio contributo avrebbe seminato nel campo della fortuna, indipendentemente dalle circostanze esterne. E anche oggi, ogni volta che sento nascere dentro di me il desiderio di lamentarmi, di recriminare, di rinfacciare qualcosa a qualcuno che si è dimostrato ingrato, la storia di Shariputra mi insegna a vedere dentro di me quale richiesta implicita nella mia “donazione” non è stata soddisfatta e a cercare di riportare l’atto di offrire al suo significato più autentico.

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    La sincerità in un’azione
    Sudatta e la moglie donarono al Budda Shakyamuni e ai suoi discepoli il poco cibo che possedevano. Dalla loro storia si può imparare la forza di una fede sincera

    In India c’era un uomo di nome Sudatta che viveva con la moglie. Pur essendo molto poveri, erano ferventi seguaci del Budda. Un giorno la moglie stava cucinando quel poco di riso che il marito era riuscito a procurarsi quando Aniruddha, uno dei discepoli di Shakyamuni, si affacciò alla porta porgendole la ciotola dell’elemosina. Nel vederlo, la donna si inchinò rispettosamente e gliela riempì di riso. Subito dopo arrivarono altri discepoli del Budda, tra i quali Subhuti, Mahakashyapa, Maudgalyayana e Shariputra, ognuno porgendo alla donna la propria ciotola. Ella offrì il suo riso a ciascuno. Infine arrivò Shakyamuni in persona e la donna gli offrì con gioia tutto il riso rimasto. Se il marito fosse stato presente, ella avrebbe certamente chiesto il suo consenso e lui sarebbe stato ben lieto di offrire tutto il riso ai visitatori. La donna, tuttavia, si sentiva inquieta per non averglielo chiesto.
    Quando Sudatta tornò a casa chiese alla moglie: «C’è qualcosa da mangiare?». Questa lo guardò negli occhi e disse: «Se Aniruddha venisse a elemosinare alla nostra porta, gli offriresti qualcosa?». «Naturalmente» rispose l’uomo. «Se avessi del cibo glielo cederei, anche se poi dovessi rimanere a digiuno».
    La donna continuò: «E se Subhuti o Mahakashyapa o lo stesso Shakyamuni venissero qui, cosa faresti?». «La stessa cosa. Se avessi del cibo gliel’offrirei di cuore».
    La moglie sorrise. «Shakyamuni e i suoi discepoli sono venuti davvero e io ero così felice che ho dato loro tutto il riso per il quale hai faticato tanto. Ma ero preoccupata per quello che avresti detto; sono lieta di sentire che anche tu avresti fatto come me». Anche Sudatta sorrise e disse: «Quello che hai fatto è meraviglioso. Di certo sradicherà il nostro karma e ci recherà fortuna».
    Si dice che il gesto di generosità della moglie e la gioia con cui Sudatta aveva approvato il suo operato fecero di lui una persona ricca e influente. Queste due figure rappresentano il sincero spirito dell’offerta che nasce da una fede pura.
    In seguito l’ormai ricco Sudatta decise di donare un monastero a Shakyamuni e si mise alla ricerca di un sito adeguato per costruirlo. Scelse infine un bosco che apparteneva al principe Jetri, dal quale si recò per chiedergli di acquistarlo. Il principe però rifiutò.
    Sudatta non si arrese e infine i due raggiunsero un accordo: il principe avrebbe venduto al mercante tutto il terreno che fosse riuscito a ricoprire d’oro. Sudatta caricò un carro di monili d’oro e, tornato nel bosco, cominciò a disporli sul terreno. Ma l’intero carico del carro ricopriva soltanto un esiguo lembo di terra, così decise di portare tutto l’oro che possedeva.
    Colpito da questo comportamento, il principe Jetri si domandò: «Come mai quest’uomo è pronto a rinunciare a ogni sua ricchezza? Shakyamuni è davvero così grande? E se fosse vero quello che si dice di lui, che sia un Budda, un illuminato?». Così, disse a Sudatta: «Va bene, fermati. Non occorre che tu ricopra tutto il terreno. Il bosco è tuo». La sincerità e la devozione di Sudatta avevano commosso il principe. Il tempio prese il nome di Jetavana (Bosco di Jetri).
    Quando Sudatta informò Shakyamuni dell’intenzione di donargli un tempio, il Budda replicò solennemente: «Vorrei chiederti di offrirlo non soltanto a me, ma all’intera comunità dei credenti, in modo che possa essere usato da tutti». Così il monastero di Jetavana divenne un luogo di preghiera, in quello spirito che divenne una tradizione del Buddismo e che si ritrova oggi nei Centri della Soka Gakkai.

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    La fortuna da condividere
    Non è scontato decidere di offrire una porzione della propria casa per la pratica del Buddismo. Questo è ciò che ha fatto Fabrizio M. che vive a Rignano sull’Arno

    Quando ho ricevuto il Gohonzon avevo ventiquattro anni e abitavo a San Clemente nella casa dei miei genitori. Era una casa modesta e l’unico posto utile per ospitare il mobile che custodisce il Gohonzon era il salone. Il fatto che i miei mi avessero concesso di usare la sala era una grande opportunità anche per fare attività con gli altri membri e dare la possibilità a nuove persone di avvicinarsi al Buddismo in una fase davvero pionieristica. Allora praticavo solo io in famiglia e mi sentivo molto grato ai miei: la gente entrava e usciva da casa nostra come se fosse un Centro. Sentii chiaramente che la mia missione per kosen-rufu nella mia zona era disporre di un luogo per permettere lo sviluppo spirituale delle persone.
    Nel 1994 mi sono sposato e con mia moglie ci siamo messi a cercare una casa che avesse delle precise caratteristiche per non interrompere l’attività per gli altri. Desideravo poter mettere a disposizione un luogo accogliente e indipendente dall’abitazione che non disturbasse i vicini e la privacy della mia nuova famiglia, anche perché i membri, nel frattempo, erano notevolmente aumentati. Dopo una prima soluzione in una villetta a schiera che non rispondeva esattamente a quella che era la nostra idea, io e mia moglie abbiamo acquistato un rudere, una casa colonica, un beneficio enorme grazie anche al miglioramento del mio lavoro. Vista la crescita della qualità della mia vita, offrire un luogo per le attività con tutti i comfort era la cosa migliore che potessi fare. Il rudere era un vecchio sogno su cui avevamo buttato l’occhio prima del matrimonio ma a quel tempo non ce lo potevamo permettere.
    Quando l’abbiamo acquistato abbiamo cominciato subito i lavori di ristrutturazione pensando tutto in funzione degli altri. Avevamo individuato nella stalla il luogo più adatto da dedicare alle riunioni perché rispondeva alle caratteristiche di essere luminoso, silenzioso, con ingresso e i servizi indipendenti e possibilità di parcheggio, senza disturbare nessuno.
    Il primo gennaio del 2000 abbiamo inaugurato la sala con una grande festa. Da allora è a disposizione di tutti i membri affinché possano dar libero sfogo alla voce del Budda senza preoccuparsi di disturbare i vicini. Lì abbiamo organizzato moltissimi meeting, io la vorrei sempre piena di gente, perché la fortuna accumulata non vale niente se non viene condivisa. La bellezza di offrire agli altri è una ricchezza inestimabile che mi ha dato dei benefici enormi e mi ha permesso di stringere relazioni umane che non avrei mai potuto allacciare diversamente. La gioia che provo oggi è vedere a proprio agio le persone che si sentono accolte; questo mi fa stare benissimo. (m.p.)

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