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Dopo il terremoto: come infondo la speranza nei miei pazienti - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:32

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    Dopo il terremoto: come infondo la speranza nei miei pazienti

    Izumi Nakano, coordinatrice infermieristica, racconta come ha affrontato il terribile periodo successivo al disastro che ha colpito il Giappone nel 2011

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    Izumi Nakano, coordinatrice infermieristica, racconta come ha affrontato il terribile periodo successivo al disastro che ha colpito il Giappone nel 2011

    Il mio lavoro consiste nel definire piani di assistenza per le persone che ne fanno richiesta. La mia casa si trova nella cittadina di Futaba, a quattro chilometri dal reattore 1 della centrale nucleare Daiichi, a Fukushima. Anche la zona in cui lavoro si trova nel raggio di venti chilometri dalla centrale nucleare. L’11 marzo 2011, il terremoto e il conseguente tsunami hanno causato la fusione dei noccioli di tre reattori della centrale, di conseguenza tutti i residenti sono dovuti evacuare, e io e mio marito siamo stati costretti a spostarci da un centro all’altro.
    Ero fuori di me dalla preoccupazione perché non avevo notizie dei miei pazienti. Non c’era modo di contattarli e l’unica cosa che potevo fare era recitare Daimoku con determinazione per la loro sicurezza.
    Dopo un po’ di tempo, cominciai a ricevere notizie terribili circa le loro condizioni: una donna costretta a letto, ad esempio, che non poteva sopportare spostamenti, non fu accettata nel centro più vicino, perché completo, e venne trasportata in autobus in un altro centro. Il viaggio durò molte ore e all’arrivo fu trovata morta sul sedile. Un altro paziente cercò rifugio in un istituto di lunga degenza fuori dalla prefettura di Fukushima, ma fu mandato via perché temevano che fosse stato contaminato dalle radiazioni.
    Dopo più di un mese dal terremoto, mi stabilii a Ishinomaki e fui assegnata alla cura degli sfollati. Da allora mi sono occupata di trovare residenze temporanee per persone che precedentemente vivevano in case di cura, tenendo i contatti con i comuni e con gli istituti per assicurare il trasferimento dei pazienti.
    In seguito all’incidente nucleare, la situazione degli evacuati bisognosi di cure era particolarmente difficile. Lo stress di iniziare una nuova vita in un luogo non familiare e il fatto di vivere in alloggi temporanei ristretti, ebbe un notevole peso sia sugli operatori sanitari che sui pazienti, provocando a volte anche lo smembramento di famiglie. I pazienti si sentivano soli e demotivati. Disperatamente desiderosi di tornare nelle proprie case, perdevano gradualmente la speranza e la voglia di vivere. In alcuni casi persero completamente le forze, al punto da non poter più camminare. Soffrivo molto perché i pazienti sembravano non volersi aprire con me, nonostante desiderassi sinceramente confortarli e prestar loro ascolto. Molti soffrivano in silenzio, convinti che nessuno potesse comprendere la loro situazione.
    A volte, uscendo dal lavoro, provavo solo il desiderio di piangere e mollare tutto, tuttavia, grazie all’incoraggiamento dei membri della Soka Gakkai, sono stata capace di superare quei momenti così duri.
    Mi dicevo che proprio quello era il momento di utilizzare la pratica buddista e iniziai a recitare Nam-myoho-renge-kyo seriamente, fino a quando un cambiamento profondo iniziò a manifestarsi nel mio atteggiamento verso i pazienti. Determinai di incoraggiarli con tutto il cuore, e di far sentire loro che non erano soli. Mi sforzai anche di andare a trovarli più spesso per offrire sostegno a ciascuno di loro. Decisi di recitare Daimoku fino a realizzare un risultato positivo nel rapporto con ognuno. Cominciai a parlare meno e ascoltare di più. A volte scherzavo e cercavo di farli ridere e loro, pian piano, iniziarono ad aprirsi e a confidarsi con me.
    Un giorno una donna anziana iniziò a singhiozzare mentre l’abbracciavo. Pensava di non essere più di alcuna utilità per gli altri, e di essere un grave peso per la sua famiglia. Avrebbe preferito essere morta il giorno del terremoto. La confortai dicendo che la vita è la cosa più preziosa e che essere vivi è già di per sé meraviglioso. Piangemmo insieme e in quel momento mi sembrò di vedere una debole luce in fondo a un tunnel buio. Quando riesco a incoraggiare chi ha attraversato esperienze così dolorose, mi sento ottimista e percepisco il significato profondo della mia esperienza.
    Naturalmente la mia vita è una sfida costante ogni giorno, ma provo un profondo senso di realizzazione pensando che con il mio esempio posso dare speranza agli altri.
    In seguito incontrai di nuovo la signora anziana che aveva pianto tra le mie braccia: era riuscita a ritrovare i suoi familiari, e mi chiese se l’avrei ascoltata ancora in futuro, qualora ne avesse avuto bisogno. Le risposi con un sorriso che la prossima volta sarei stata io a cercarla per farmi incoraggiare!

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