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Saper vedere oltre l'oscurità - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 12:20

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Saper vedere oltre l’oscurità

Sandro Perondi è agente di polizia penitenziaria nel carcere di Civitavecchia

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Sandro Perondi è agente di polizia penitenziaria nel carcere di Civitavecchia

Di che cosa ti occupi e come hai fatto a portare la pratica nel carcere?
Lavoro al nucleo di traduzioni e piantonamenti. Essendo un operatore penitenziario all’inizio non capivo bene fin dove potevo spingermi per parlare ai detenuti della pratica buddista. Desideravo fortemente portare il Buddismo in carcere ma non avevo buoni rapporti con il direttore e temevo il giudizio dei colleghi. Sembra un paradosso, ma mi sentivo in prigione, in tutti i sensi: non ero libero di regalare la frase meravigliosa di Nam-myoho-renge-kyo a coloro che ne avevano bisogno. Poi, un giorno, sentii un mio collega che per confortare un detenuto gli consigliava di affidarsi alla sua religione. Fu illuminante. Perché io, allora – mi dissi -, non posso parlare di Nam-myoho-renge-kyo? Capii che il limite era solo nella mia mente e da lì ho cominciato a parlare apertamente ai miei colleghi, ai detenuti e a tutti coloro che me ne offrivano l’opportunità. Due miei colleghi hanno ricevuto il Gohonzon e molti detenuti hanno cominciato a praticare regolarmente facendo sì che venisse valutata l’apertura di un luogo di culto all’interno del carcere, un’impresa davvero ardua che siamo riusciti a realizzare grazie a molti simpatizzanti e a tante buone relazioni.

Valore, bellezza e guadagno: a quale di questi tre parametri dai maggiore importanza?
Al valore. Sono agente di polizia penitenziaria dal 1983 e spesso ho paragonato la mia professione a quella degli altri cercando la risposta a questa domanda: «Cosa posso creare con il mio lavoro?». Voglio dire, il calzolaio crea le scarpe, il gelataio crea il gelato… e io da “carceriere” cosa creo? La soluzione me l’ha data il Buddismo: posso creare valore in un luogo dove tutto sembra perduto.

Come?
Con l’esempio, il comportamento e il rispetto per l’essere umano che va ben oltre il giudizio sul detenuto che ho davanti. Le persone per cui lavoriamo hanno a che fare con reati spesso gravissimi che, se non vengono visti con il dovuto distacco, facilmente lasciano spazio alla rabbia, trascinandoti nei mondi bassi. È fondamentale recitare Daimoku per sviluppare compassione e arrivare a sentire il cuore di una persona indipendentemente dal crimine che ha commesso.

Ti ricordi un episodio particolarmente delicato?
La storia di una ragazza di ventisei anni condannata in primo grado all’ergastolo per un reato di duplice omicidio. Io le avevo parlato del Buddismo qualche tempo prima della sentenza e per tutta la fase processuale è stata sostenuta nella fede da una mia collega. Nonostante la gravità del reato di cui era accusata, il Buddismo l’ha aiutata a prendere consapevolezza della sua natura e a sviluppare spirito di ricerca. Lei si è sempre dichiarata innocente e per questo era convinta di essere assolta. Quando invece è stato riconfermato l’ergastolo, per lei è stato come morire. Ho sentito la sua sofferenza e ho provato molta compassione, ma non avevo parole per incoraggiarla. Quando siamo rientrati in istituto abbiamo recitato Gongyo e ha guidato lei. Lei lottava con il Daimoku per riuscire a vedere oltre quella condizione, continuando a recitare ha capito quale sarebbe stata la sua missione là dentro: praticare il Buddismo di Nichiren per approfondire la fede anche per le altre donne. Attualmente nel carcere di Civitavecchia ci sono circa seicento detenuti, trentadue sono donne, di cui dodici praticanti. La fede di questa ragazza è diventata un punto di riferimento per tutte le altre detenute.

Come incoraggeresti chi fa un mestiere simile al tuo?
Con le parole del mio maestro: «Fede e vita quotidiana, fede e lavoro, non sono separati, sono un’unica cosa. Distinguerli, pensando che la fede sia una cosa e il lavoro un’altra, significherebbe avere una fede teorica. […] Aver fede significa dare prova concreta nella realtà sociale e nella propria vita quotidiana» (D. Ikeda, Giorno per giorno, 7 giugno).

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