Ciò che appartiene alla sfera dell’esteriorità a volte viene considerato un inutile orpello. Forse è vero, ma – come ammonisce un proverbio – prima di gettare anche il bambino insieme all’acqua sporca vale la pena di chiedersi che valore possono avere i piccoli e grandi “riti” che accompagnano la pratica del Buddismo del Daishonin
Che la filosofia buddista sia estremamente profonda nessuno lo mette in dubbio. Che abbracci ogni aspetto della vita e che sia in grado di fornire delle risposte agli esseri umani – notoriamente “produttori” di domande su scala industriale – è quasi universalmente accettato. In determinati momenti storici e sociali, tutto questo ha esercitato un notevole fascino sull’occidente concreto e pragmatico, tanto è vero che il richiamo mistico dell’oriente riaffiora a intervalli regolari fra una sterzata materialistica e l’altra.
Un’obiezione, però, che spesso chi parla ad altri della sua esperienza di praticante buddista si sente rivolgere può suonare più o meno così: «Certo, è molto interessante. Se avessi tempo mi piacerebbe studiare i principi del Buddismo. Ma a mettermi in ginocchio [o a sedere] davanti a un altarino, recitare delle litanie, accendere candele e incenso, offrire sempreverdi e frutta [e a chi, poi?] e via dicendo… no, non mi ci vedo proprio». Tutto sommato è comprensibile, anche se lo scoglio si può superare abbastanza facilmente. Può capitare, a questo punto, che il nostro “praticante”, senza darlo a vedere, si domandi: «Ma perché io tutte queste cose le faccio?». Allora è il momento di affrontare la questione nei dettagli.
Analizzando – a caso – alcuni comportamenti umani, sembra che l’essere umano abbia bisogno di una sorta di rito nella maggior parte delle sue attività: prepararsi l’ambiente di studio o di lavoro, apparecchiare la tavola in un certo modo e riunirvi attorno l’intera famiglia, baciare il coniuge sulla porta prima di andare a lavorare. E non assume un’aura di rito la visita del primario nella corsia di un ospedale? Per non parlare dell’intenditore di vini che annusa il suo prezioso nettare, lo sorseggia, lo assapora prima di offrirlo agli ospiti. Per alcuni, perfino condire l’insalata è un rito. Sembra proprio che l’essere umano, in teoria così razionale e privo di fronzoli, quando non li ha, i riti se li vada a cercare.
Le religioni hanno elevato la ritualità a livelli di assoluto “professionismo”. Nella funzione religiosa i credenti si ritrovano e si riconoscono nelle medesime azioni, ripetute sempre nello stesso ordine e riaffermano l’appartenenza – e il servizio – al gruppo, pur nel rispetto delle diverse individualità. E questo può essere esteso anche a quei riti che ciascuno celebra individualmente, dal momento che tutti i fedeli seguono le stesse “procedure”.
Il rito è anche autodisciplina. Non quindi un sintomo di rigidità, di obbedienza a norme imposte dall’alto, ma una manifestazione di autodeterminazione, la scelta di dedicare parte del proprio prezioso tempo a una pratica che a volte può essere anche faticosa.
Anche il Buddismo di Nichiren Daishonin abbonda di riti, e fra questi si possono distinguere più livelli: recitare Daimoku, per esempio, è fondamentale e insostituibile per ottenere l’Illuminazione, offrire rami di sempreverde all’Oggetto di culto non lo è altrettanto. Una caratteristica comune però esiste: un Daimoku recitato come pura formalità non produrrà certo effetti devastanti, mentre un sempreverde offerto con il desiderio di rendere il più possibile dignitoso e accogliente il luogo dove si svolge la pratica buddista significa fare un’offerta alla parte più nobile della propria vita – la natura di Budda – e predispone a offrire un Daimoku più concentrato e determinato. In queste pagine cercheremo di affrontare tutti gli aspetti della ritualità in uso nella Soka Gakkai mettendone in evidenza i significati, anche allo scopo di renderli sempre meno formali e sempre più ricchi di significato.
La recitazione
Cominciamo da quello che – secondo Nichiren Daishonin – è il vero e proprio cardine della ritualità buddista e che è noto con il nome giapponese di Gongyo. Questa parola, che significa “pratica assidua”, non indica solo la lettura dei due capitoli Hoben (secondo) e Juryo (sedicesimo) del Sutra del Loto – che costituiscono la “pratica di supporto”, ma anche la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo – la “pratica principale”. Nel Gosho il Daishonin insegna a recitare i due capitoli citati, ma non dice mai quando né quante volte. L’attuale forma[ref]«Permettetemi di precisare che la convenzione delle cinque preghiere mattutine e tre serali non è specificata in nessuno degli scritti di Nichiren Daishonin, ma è una prassi che si è andata sviluppando successivamente, nel tempo, tra i seguaci del Daishonin … Nichiren Daishonin ha affermato che anche un solo Daimoku contiene benefici infiniti» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] di Gongyo, che prevede cinque preghiere al mattino e tre alla sera, venne stabilita dopo la seconda guerra mondiale dal patriarca Nichiko Hori su richiesta del secondo presidente della Soka Gakkai, Josei Toda, nell’intento di fornire ai praticanti una base comune e, soprattutto, accessibile a chiunque, prete o laico. Dopo aver letto i brani prescritti, si recita Daimoku quanto più è possibile. Bisogna chiarire, però, che secondo il Daishonin è proprio il Daimoku la pratica principale, mentre alla lettura del sutra viene assegnata una funzione di supporto. Il Daimoku, inoltre, si recita in qualunque momento della giornata senza farlo precedere dai due capitoli del sutra.
Primo punto, quindi: recitare solo il sutra trascurando la recitazione del Daimoku non è la pratica corretta del Buddismo del Daishonin.
Chiarito questo, veniamo al “come”, che comprende diversi aspetti. Innanzitutto, si recita con la voce che, secondo Daisaku Ikeda, «è un aspetto della vita; è inseparabile dal cuore. Secondo il principio di unicità di corpo e mente, il cuore e la voce sono essenzialmente una cosa sola». Una persona fortemente determinata a risolvere i propri problemi tramite il potere del Gohonzon non recita certo con una voce flebile e lamentosa ma, per citare il Gosho, il suo «Nam-myoho-renge-kyo è come il ruggito di un leone», il suo ritmo richiama quello di un cavallo al galoppo. Inoltre, i sette ideogrammi che compongono il Daimoku hanno un significato, e quindi vanno pronunciati in modo comprensibile.
Secondo punto, quindi, possiamo anche usare la voce e la pronuncia come verifica dell’atteggiamento che abbiamo di fronte alle difficoltà e agli obiettivi. E non finisce qui: possiamo agire sulla voce e sulla pronuncia per influenzare l’atteggiamento interiore.
Per il sutra il discorso è ancora più complicato, perché si tratta di ben più di sette ideogrammi. La pronuncia e il ritmo – ebbene sì – vanno studiati. E di migliorare la recitazione dei capitoli Hoben e Juryo si può anche non smettere mai. Un consiglio: recitare lentamente insieme a chi lo fa meglio di noi, e non necessariamente tutto. Anche studiare una pagina alla volta, o solo quel brano particolarmente ostico, può essere un buon metodo.
E veniamo all’atteggiamento fisico: vale il discorso già fatto per la voce. Stare davanti al Gohonzon come si starebbe in poltrona davanti alla TV con pantofole e popcorn, non è la massima dimostrazione di ichinen. Recitare Gongyo e Daimoku eretti e composti con dignità e sincerità, le mani unite all’altezza della gola con le dita distese, la testa alta e lo sguardo al Gohonzon[ref]«È meglio tenere gli occhi aperti e guardare il Gohonzon. In genere si considera poco educato non guardare in faccia qualcuno quando gli si sta parlando, e quando ci si siede davanti al Gohonzon ci si rivolge ad esso tramite Gongyo e Daimoku. Naturalmente non c’è bisogno di preoccuparsi se occasionalmente può capitare di chiudere gli occhi. Teniamo presente, però, che con gli occhi chiusi è più difficile fondersi profondamente con il Gohonzon … [Dirigete lo sguardo] dovunque sia per voi più naturale. Potete guardare i caratteri centrali Nam-myoho-renge-kyo oppure l’intero Gohonzon. Più si recita con fede, le preghiere si fonderanno con esso» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] richiede più o meno lo stesso impegno che recitare curvi, con le dita rattrappite o la testa incassata nelle spalle, ma aiuta ad affrontare realmente la propria situazione o a ribaltare un atteggiamento rinunciatario e sconfitto in partenza. Provare per credere. Un’altra abitudine abbastanza diffusa ma non del tutto “ortodossa” è leggere mentre si recita Daimoku: è verosimile pensare che non si riesca a ottenere la massima concentrazione né sull’una cosa né sull’altra.
Terzo punto, possiamo agire sull’aspetto e sulla posizione per “raddrizzare” anche l’atteggiamento[ref]«Gongyo e Daimoku non sono obblighi, al contrario sono un nostro meraviglioso diritto» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] e dare maggiore incisività alla pratica.
Non bisogna mai dimenticare che Gongyo (e sottolineiamo che in questa parola è compreso anche il Daimoku) è una cerimonia[ref]«Quando facciamo Gongyo e recitiamo Daimoku al Gohonzon, il microcosmo della nostra vita individuale entra in armonia con il macrocosmo dell’universo. Gongyo è una cerimonia solenne. Quando facciamo Gongyo spalanchiamo le porte del magazzino del tesoro dentro di noi, scaviamo per far sgorgare la sorgente della forza vitale che giace dormiente nei recessi più profondi del nostro essere, attingiamo a un’inesauribile sorgente di saggezza, compassione e coraggio» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] che richiede serietà, dignità, solennità, partecipazione totale. Non si interrompe Gongyo se non per un motivo importante e, arrivando a una riunione in ritardo, invece di battere sulla spalla del vicino per chiedere «a che preghiera siamo», si cerca di non fare rumore e, se è il caso, di rimanere in fondo alla stanza per non disturbare.
Con un tale atteggiamento possiamo sperare che il nostro Gongyo produca i frutti desiderati.
Il butsudan
Si dice che il Gohonzon sia la materializzazione della vita del Budda che esiste dentro ognuno di noi. Si dice che possegga il potere del Budda e quello della Legge, ma si spiega anche che questi due poteri sono inutili – o meglio, latenti – se non vengono attivati dal potere della pratica e da quello della fede che sono propri della persona che “usa” il Gohonzon. Lo stesso Daishonin ripete più volte che il Gohonzon va ricercato dentro di sé, ma questo non significa che l’oggetto, la pergamena, il “mezzo”, possa essere trattato con noncuranza: oltre a essere l’Oggetto di culto lasciatoci dal Maestro, è la causa esterna che ci permette di raggiungere la Buddità.
Il rispetto verso il Gohonzon equivale a quello che si ha nei confronti della propria vita. A questo principio si possono ricondurre tutte le considerazioni che riguardano la sistemazione e la cura dell’altare buddista,[ref]«“Re della Medicina”, in qualunque luogo questo sutra venga predicato, dovunque venga letto, dovunque venga recitato, dovunque venga copiato, dovunque esista un rotolo di esso, in ognuno di tali luoghi bisognerebbe erigere torri ornate dalle sette gemme e costruirle molto alte, maestose e riccamente decorate. Non è necessario che là vengano conservate le reliquie del Budda. Per quale motivo? Perchè in tali torri è già presente l’intero corpo del Budda» (Sutra del Loto, cap. 10).[/ref] aspetti molto importanti della ritualità. Prima di tutto, il luogo della casa dove viene sistemato il butsudan (il mobiletto che racchiude il Gohonzon) è un sicuro indice della considerazione che il credente ha del suo Oggetto di culto. Quindi, scegliere il posto migliore possibile compatibilmente con la disposizione della casa e con le esigenze di chi vi abita (in particolar modo se si tratta di persone che non condividono la nostra fede). Il mobile in sé deve essere il più possibile solido, stabile e dignitoso. Alcuni, per maggior sicurezza, preferiscono fissarlo alla parete. Anche l’atto di spolverare quotidianamente il butsudan prima di recitare Gongyo, alla luce di quanto detto prima ha un grande significato.
Recitando davanti al Gohonzon, lo sguardo deve esere rivolto un po’ verso l’alto, tenendo conto che se alcuni recitano in ginocchio, la maggior parte delle persone usa le sedie. Di questo va tenuto conto quando si decide la sistemazione del proprio altare buddista. L’illuminazione deve essere sistemata in modo che il Gohonzon possa essere visto da tutti senza riflessi fastidiosi, facendo attenzione che il la lampadina non sia troppo vicina alla pergamena: il calore potrebbe danneggiarla.
Spesso si vedono, all’interno del mobiletto, due “statuette” di metallo in foggia di gru o, più di recente, con il fiore di loto a otto petali simbolo della Soka Gakkai: non hanno alcun potere. Il fatto di averli o meno non cambia assolutamente nulla nello svolgimento della pratica buddista. Hanno però un’utilità pratica: appoggiati al bastoncino inferiore del Gohonzon non gli permettono di svolazzare e lo tengono fermo, cosa molto utile quando il Gohonzon è nuovo e tende ad arricciarsi o quando d’estate le finestre sono aperte o si usa un ventilatore.
Le offerte
A differenza di quanto avviene con la recitazione del sutra e del Daimoku, argomento sul quale abbiamo azzardato prescrizioni piuttosto precise, le offerte che i credenti usano fare al Gohonzon possono essere fatte – o non fatte – senza seguire una rigida formalità.[ref]«Dovremmo ricordare che cose come il juzu, l’altare buddista, l’incenso e le candele non sono che l’aspetto rituale della fede. Si tratta di gesti e oggetti di tipo formale, soggetti a cambiamento per motivi di tempo e di luogo. La sostanza della fede è la cosa più importante: la nostra è una pratica basata su due aspetti fondamentali – la pratica per sé e per gli altri – due aspetti che non cambieranno mai. La pratica per sé è costituita dalla recitazione del Daimoku e dalla cerimonia di Gongyo, la pratica per gli altri consiste nell’insegnare loro la Legge mistica» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] Il Daishonin parla più volte di offerte al Sutra del Loto (cioè al Gohonzon), ma non detta mai regole da seguire con rigidità. Nel Gosho di capodanno, per esempio, si legge: «Il tuo cuore che desidera fare offerte al Sutra del Loto ora, all’inizio del nuovo anno, è come il fiore che spunta dall’albero, come il sandalo che cresce sulle Montagne Nevose o come la luna che sorge» (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, pag. 273). Le “regole” che generalmente si seguono derivano più che altro dalle tradizioni sia buddiste che giapponesi fatte proprie dalla Nichiren Shoshu, e la stretta osservanza della formalità è ormai patrimonio di un clero che, come membri della Soka Gakkai, non riconosciamo più come guida.
Perché fare offerte al Gohonzon? Da un punto di vista strettamente pratico le offerte rivolte al Gohonzon sono azioni che possono contribuire a migliorare la nostra relazione con il Gohonzon stesso. Il momento delle offerte è un’occasione per mostrare (a se stessi prima di tutto) il desiderio di fondersi con la vita del Budda originale. E la sincerità dell’offerta, prima ancora che dai benefici (come in una sorta di do ut des), sarà ripagata da un sentimento più profondo verso il Gohonzon e da una maggiore consapevolezza riguardo allo scopo della pratica buddista. Fare offerte, quindi, per rinnovare il proprio spirito e la propria fede, per ricordare il rispetto che si deve alla propria vita,[ref]«Si dovrebbero quindi offrire in dono a queste torri ogni genere di fiori, incenso, collane, drappi di seta, stendardi e vessilli, musica e inni e si dovrebbe tributare loro rispetto, onore e lode. Se le persone, vedendo queste torri, si inchinano rispettosamente e fanno offerte, sappi che si stanno avvicinando all’anuttara-samyak-sambodhi» (Sutra del Loto, cap. 10).[/ref] la cosa più nobile e preziosa che esiste nell’universo, per risvegliare il desiderio di migliorarsi ogni giorno.
La piccola ciotola d’acqua che si offre al Gohonzon tutte le mattine prima della cerimonia di Gongyo è forse l’offerta più osservata. Essa riflette l’intenzione di purificare, lavare, la propria vita ogni giorno e di avere allo stesso tempo una fede costante e pura come l’acqua che scorre. Di solito, l’acqua si ritira prima di recitare il Gongyo della sera e può essere data alle piante o semplicemente buttata via. La tradizione di offrire acqua ha origine in India, la culla del Buddismo. In quel paese torrido l’acqua è sempre stata considerata preziosa ed era consuetudine offrirla agli ospiti. In seguito si cominciò a offrire acqua davanti alle tombe e nei templi buddisti.
Probabilmente, la funzione originaria delle candele era quella di produrre luce: non dimentichiamo che il Buddismo è molto più antico dell’uso della corrente elettrica. L’offerta di candele o di lampade votive è comune a molte religioni e riti, e nei sutra si parla di offrire al Budda la luce di lampade a olio. La disposizione simmetrica delle candele – di solito due, ma può essere anche una sola – può dare un senso di ordine e austerità, ma nulla vieta di disporle come meglio si crede a condizione di salvaguardare il Gohonzon dalla fiamma e da eventuali schizzi di cera. Le candele simboleggiano la verità di non sostanzialità, o potenziale di vita latente. Ma rappresentano anche la proprietà della saggezza o la proprietà spirituale illuminata del Budda, e la potenziale saggezza di risvegliarci alla nostra innata natura di Budda.
È consuetudine offrire piante o rami di sempreverdi invece che fiori perché le piante simboleggiano l’eternità della vita, ma non esiste una prescrizione che impedisca di offrire fiori o altri tipi di piante. Il Sutra del Loto – citato fra l’altro anche dal Daishonin nel Gosho – cita esplicitamente l’offerta di fiori. Le piante, hanno anche la funzione di rendere più piacevole e riposante l’ambiente dove si svolge la pratica buddista.
Anche l’aroma dell’incenso contribuisce alla creazione di una atmosfera tranquilla e rilassata, ma mentre alcuni lo adorano, altri non lo sopportano. È sicuramente preferibile non accenderlo se a qualcuno dà fastidio: dopotutto, come abbiamo più volte sottolineato, quello che conta è lo spirito e – in questo caso – il buon senso e il rispetto delle altre persone piuttosto che una rigida formalità. Il fatto che di solito l’incenso bruci da sinistra verso destra deriva probabilmente dal fatto che la maggior parte delle persone lo offre con la mano destra ed è quindi naturale che venga sistemato in quella posizione. Il significato – quale esso sia – che la tradizione ha voluto dare a questo particolare fa parte di quegli aspetti formali di cui abbiamo già detto di non preoccuparsi troppo.
Dal Giappone deriva la tradizione di offrire riso bollito al Gohonzon. Il riso, come afferma il Gosho, rappresenta il nutrimento e quindi la forza vitale stessa dell’esistenza. In Occidente è piuttosto raro che si offra il riso, ma è frequente vedere davanti al butsudan frutta o dolci che hanno lo stesso significato. Il cibo offerto al Gohonzon non è un’offerta “a perdere” ma un ringraziamento interiore. La frutta che viene offerta non deve essere lasciata marcire, ma prelevata e consumata. Anche qui ciò che conta è il significato profondo dell’offerta, più che la quantità o la modalità della stessa.
Far risuonare la campana durante Gongyo significa lodare il Budda. Il suono innalza gli spiriti di tutti i presenti e aiuta ad armonizzare la recitazione del Sutra e del Daimoku. Nel capitolo Jo (primo) del Sutra del Loto si legge: «…esseri celesti, draghi, spiriti, esseri umani e non umani, fanno continue offerte di incenso, fiori e musica». Inutile dire che bisogna tenere in considerazione la giusta pretesa dei vicini di casa di non essere disturbati dalle nostre “offerte al Budda”.
Ciascuna delle offerte menzionate può essere eliminata senza doversi per questo aspettare retribuzioni negative. Fare offerte al Gohonzon ha un significato del tutto personale e, soprattutto, deve diventare un piacere, una fonte di gioia per la propria vita. Deve essere la rappresentazione oggettiva della felicità che proviamo nel possedere il Gohonzon, nell’essere grati alla nostra vita per i benefici che otteniamo grazie alla pratica e null’altro.
Sono esattamente come le premure per i nostri amici, le attenzioni che mettiamo nel fare trovare a proprio agio chi ci visita o è nostro ospite. Soltanto che sono rivolte verso noi stessi, poiché il luogo della nostra pratica non è altro che la nostra vita stessa, nel momento nel quale cerchiamo di trarre fuori da essa le cose migliori.
Le cerimonie
L’argomento necessita di una premessa. Nel mettere in evidenza le distorsioni dell’insegnamento di Nichiren Daishonin perpetrate da quella parte del clero che segue il patriarca Nikken, la Soka Gakkai condanna l’enfasi che viene posta sulle cerimonie e sui rituali piuttosto che sulla sincerità e profondità della fede individuale. Questo, tra l’altro, è uno dei punti principali individuati da Jane Hurst, docente di filosofia e religione alla Gallaudet University di Washington D.C., nella sua ricerca sul conflitto in corso fra la Soka Gakkai e la Nichiren Shoshu (cfr. Il Nuovo Rinascimento, n° 188, pag. 16 e segg.). Sembra una contraddizione che nei Centri della Isg si celebrino spesso cerimonie nuziali o funebri che seguono una sorta di “liturgia” un po’ speciale, ma non è assolutamente così.
Innanzitutto, a titolo informativo, il clero utilizza le cerimonie come fonte di sostentamento, dal momento che non sono affatto gratuite, insinuando che senza la mediazione di un prete e l’offerta di tavolette votive (toba) il defunto non può ottenere la pace e l’Illuminazione né gli sposi possono dirsi effettivamente uniti di fronte al Gohonzon. Nelle cerimonie che si svolgono nei Centri della Soka Gakkai, i protagonisti sono sempre i credenti, che si riuniscano per un evento lieto come un matrimonio o per una circostanza triste quale ricordare un proprio caro defunto. Inoltre non è mai stato affermato che queste cerimonie siano necessarie: una coppia, unita o meno con rito civile, può continuare serenamente a svolgere la sua attività all’interno dell’Associazione anche se non “santifica” la sua unione con un matrimonio buddista e i parenti di un defunto possono preferire ricordarlo e pregare[ref]«Supponiamo che una persona muoia in una condizione di dolore e sofferenza: anche dopo la morte la sua vita rimarrà in questo stato.La sua condizione potrebbe essere paragonata a quella di qualcuno che si lamenta e geme nel sonno durante un incubo.Se si recita Daimoku per questa persona defunta, si può rimovere la sofferenza dalla sua vita e portare sollievo e gioia attraverso il rivitalizzante potere di Nam-myoho-renge-kyo» (Daisaku Ikeda, Dialoghi sulla gioventù).[/ref] per la sua illuminazione nel loro Gongyo senza dovere per forza bruciare incenso in un Centro della Soka Gakkai.
Ma se qualcuno, come accade nella maggior parte dei casi, desidera condividere con gli altri la propria gioia per un’unione felice o il proprio dolore per la perdita di una persona cara, esistono delle forme tradizionali con le quali esprimere questi sentimenti. In tutti i casi, il punto di partenza è una forma abbreviata di Gongyo chiamata appunto “Gongyo di cerimonia” che di solito consiste nella recitazione del capitolo Hoben e del Jigage (la parte in versi del capitolo Juryo) seguita da alcuni minuti di Daimoku. Anche in questo caso la regola non è ferrea: recitare – per esempio – un Gongyo completo può essere un’alternativa altrettanto valida. Nel caso del matrimonio, poi, gli sposi e i testimoni bevono saké da tre diverse tazze, tre sorsi ogni volta a significare le tre esistenze di passato, presente e futuro, ma il saké può essere sostituito da un’altra bevanda (il lettore, però, converrà con noi che l’uso di aranciata o chinotto toglierebbe un po’ di sacralità al tutto). Per le cerimonie funebri, la recitazione di Daimoku continua fino a quando tutti quelli che lo desiderano non hanno offerto un pizzico di incenso in grani in un piccolo braciere (incensiera da cerimonia) in memoria del defunto.
Si usa, a questo punto, dare voce ai sentimenti dei presenti: qualcuno può leggere una frase dal Gosho o un brano – anche tratto dalla letteratura non buddista – a suo piacere, qualcun altro può esprimere liberamente quello che sente, ricordare un momento passato con il defunto o fare i suoi gioiosi auguri agli sposi. Infine, la recitazione di tre Daimoku conclude il rito, come del resto si usa fare anche alla fine delle riunioni di discussione.
Per concludere, citiamo le varie cerimonie di commemorazione che si svolgono in occasione di date particolari: si ricorda, per esempio, la riunione che si svolse il 16 marzo del 1958 durante la quale il presidente Toda affidò alla Divisione giovani il compito di far avanzare il movimento di kosen-rufu dopo la sua scomparsa (sarebbe morto il 2 aprile dello stesso anno). In questi casi non si può parlare di vere e proprie “cerimonie”, quanto di occasioni per ritrovarsi, recitare insieme e riconfermare una volta di più gli obiettivi che condividiamo come membri della Soka Gakkai.