Marina Moretti, ostetrica: coltivando il desiderio di continuare ad arricchire la sua vita senza fermarsi ai risultati già acquisiti, riesce ad aprire nuove strade nel suo campo professionale che la portano a fare con le donne un percorso di sostegno prima e dopo il parto
Come hai deciso di fare l’ostetrica?
A diciassette anni studiavo per fare l’accompagnatrice turistica e sono andata in Inghilterra a imparare l’inglese. Mentre ero lì ho sentito che volevo fare qualcosa per aiutare i bambini a nascere e poi ho saputo che questa figura è l’”ostetrica”. Una volta rientrata in Italia ho fatto il corso, a ventitré anni mi sono laureata e ho trovato lavoro vicino casa, in uno dei centri più prestigiosi d’Italia. Il gruppo delle ostetriche era molto giovane, quindi era il posto ideale per crescere, anche professionalmente. Il nostro primario dava spazio ai giovani: mi si apriva davanti uno scenario davvero fortunato.
Poi le cose sono cambiate?
Quando ho iniziato a praticare il Buddismo ero entusiasta di come mi sentivo e mi veniva naturale parlare agli altri del beneficio di aver incontrato una pratica che faceva vivere così bene la vita quotidiana. Parlare agli altri del Buddismo è stato il primo elemento importante. La seconda cosa è che da subito ho creato la mia relazione con sensei, ho sentito che lui era la persona che mi stava incoraggiando mostrandomi la strada: fin dall’inizio il presidente Ikeda è stato il mio faro. Il beneficio più grande di averlo scelto come maestro, anche inconsapevolmente di aver aderito al suo sogno, è che oltre ad avermi insegnato a vivere mi ha insegnato a tirare fuori i miei, di sogni. Questo è molto importante perché nel lavoro mi sentivo un po’ come una pentola a pressione, nel senso che c’erano un sacco di cose che volevo fare, ma mi accontentavo di quel giardinetto che mi ero creata e che apparentemente era l’ideale.
Mia figlia in terza media è stata bocciata per due anni consecutivi, e per la prima volta ho messo in discussione il tempo che dedicavo al lavoro, ho sentito che dovevo dedicarmi a lei. Quindi ho deciso di chiedere l’aspettativa, anche se non la davano a nessuno. Ho recitato tanto Daimoku, sia per mia figlia sia per ottenere l’aspettativa, che infatti è arrivata. In quel periodo di “pausa” dal lavoro ho percepito che quel posto non mi bastava più per esprimermi. Ho sentito un’enorme apertura nella mia vita e ho capito che avrei potuto dare molto di più in un lavoro utile alla comunità. Così ho ricominciato a studiare, in particolare tutto ciò che riguarda il sostegno a domicilio e la preparazione delle coppie alla nascita del bambino, aspetto che in ospedale non avevo mai curato perché lì tutto si concentra sul momento della nascita.
Qual era il tuo progetto per sostenere le donne?
Far nascere un bambino è bellissimo, ma è un momento fuggevole. Volevo fare invece con le donne un percorso più importante e più lungo, che abbracciasse il periodo precedente e quello successivo al parto. Dal punto di vista della formazione e dell’esperienza mi mancavano però gli strumenti, quindi ho fatto dei corsi in altre regioni e ho messo in piedi, in maniera del tutto autonoma, un percorso per seguire le donne prima e dopo il parto.
Tutto ciò ha coinciso con un momento di grandissima apertura nella mia vita, che andava di pari passo col fatto che mi stavo assumendo sempre più responsabilità nella Soka Gakkai. Ho creato dei corsi in piscina per le donne in attesa in un momento in cui a Roma non esistevano: era il 1998.
Ho messo in pratica quello che sensei ci dice di fare come donne Soka, “diventare un sole”. Parecchie delle donne che seguivo non sapevano che praticavo il Buddismo, però sentivano in modo naturale la voglia di parlare con me, di confidarmi i loro problemi come a un’ostetrica che le ascoltava, che aveva qualcosa che le attraeva, e questo mi ha permesso di aiutarne moltissime. Qualcuna ha ricevuto il Gohonzon, ma con tutte parlavo in maniera buddista.
Che significato ha, per te, aiutare una nuova vita a nascere?
Quando nasce un bambino recito tre Nam-myoho-renge-kyo per accoglierlo come un Budda e mettere una causa, un seme, fin dal primo momento della sua vita. Non posso dire che prima di praticare non sentissi l’importanza di quel momento, ma ciò che è cambiato è che ora mi preoccupo anche della felicità del bambino, e non soltanto che il parto vada bene.
Ora il mio pensiero costante, il «mai ji sa ze nen», è che la mamma e il bambino siano entrambi felici, il che è molto diverso. Salutare la nascita di un bambino col Daimoku è un atto di fede, esprime la certezza che la natura di Budda c’è già, anche nel primo vagito. È un allenamento, non è una cosa che s’impara sui libri.
Prima dicevi dei tuoi sogni: come li hai coltivati?
Nei due anni di aspettativa ho iniziato a offrire sostegno a domicilio alle donne nel periodo del parto, e ricordo che chiedevo diecimila lire, che anche nel ’98 erano pochissime. Si trattava di una cosa nuova in Italia: le aiutavo a risolvere piccoli problemi, a trovare la loro dimensione attraverso il movimento, era un modo per aiutarle a stare bene.
Terminati i due anni di aspettativa dovevo decidere se rientrare in ospedale e abbandonare tutto questo oppure licenziarmi. Per una settimana, dieci giorni, ho recitato tantissimo Daimoku perché avevo il dubbio che potesse essere uno degli otto venti, (prosperità, declino, onore, disonore, lode, biasimo, sofferenza e piacere), che si trattasse di un’illusione. Dopo tutto quel Daimoku, invece, ho capito che veramente volevo continuare quella strada nuova e non mi sono più preoccupata di perdere il lavoro. Ho portato avanti il mio sogno e mi sono licenziata.
Ovviamente, nel mio ambiente tutti mi criticavano perché lasciavo un posto fisso con sedici mensilità, in un luogo in cui ero apprezzata e dove avrei potuto avere una brillante carriera. Ma avevo deciso di seguire il mio sogno. Per un breve periodo sono anche tornata a lavorare in ospedale, ma era come se quell’ambiente non mi appartenesse più, mi era diventato estraneo.
Non deve essere stato facile lasciare il posto fisso.
Quando mi sono licenziata mi sono sentita come la farfalla che rompe il bozzolo, ho espanso al massimo la mia nuova attività e ho cominciato a collaborare con molte realtà diverse, cliniche private e studi medici dove organizzavo dei corsi. Ho collaborato con la Fondazione Fatebenefratelli e il Comune di Roma, dove mi occupavo del sostegno a domicilio delle donne socialmente deboli. In quel frangente mi sono anche occupata per la Fondazione Fatebenefratelli della formazione del servizio a domicilio di ostetriche provenienti da vari poli ospedalieri di Roma. Abbiamo formato gruppi di ostetriche che potevano seguire le donne nelle varie zone della città. Questa collaborazione col Comune è durata un anno e ciò che mi rende felice è che oggi la nostra città è piena di corsi in piscina e di ostetriche che si occupano del sostegno a domicilio. Sento d’aver fatto ciò che Ikeda ci chiede: aprire una strada là dove non c’è.
Nella clinica dove ancora oggi lavoro, quando sono arrivata tutto era un po’ lasciato andare. Anche qui ho portato i corsi che non c’erano, ho portato gruppi di persone che fanno il sostegno a domicilio. Oggi si stanno completando i lavori di ristrutturazione e quando tutto sarà pronto diventerà a Roma uno dei poli di eccellenza per la nascita. Quindi non solo ho visto fiorire la mia vita, ma anche l’ambiente dove lavoro. Certo ci vuole coraggio, ma ho detto a me stessa: «Se non tento io che ho il Gohonzon, chi lo fa?».
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Adesso il mio obiettivo è far crescere giovani ostetriche: sto pensando ai successori. Ovviamente in questo gruppo di ostetriche più della metà conosce il Buddismo, qualcuna ha iniziato a praticare e qualcuna è venuta solo a una riunione, ma non importa. Ciò che conta è che abbiano la stessa fortuna che ho avuto io alla loro età: incontrare un maestro come il presidente Ikeda.
Tra queste giovani ostetriche c’è anche tua figlia…
Mia figlia si è laureata e ha risolto alla grande tutti i suoi problemi scolastici, quello delle medie è stato solo l’”espediente” che serviva in quel momento. Oggi è ostetrica, cosa che sinceramente non mi aspettavo perché ha fatto il liceo artistico, ma lei è stata molto determinata. La cosa che mi rende orgogliosa è che ha un approccio naturale molto positivo con le donne e con le colleghe.
Nei confronti delle donne con cui lavoro mi pongo come nei confronti delle donne di cui sono responsabile nella Soka Gakkai. Ognuna è comunque una donna che vive nella mia regione: sensei dialoga con tutti, perciò voglio farlo anch’io. La mia esperienza non deriva dalle mie capacità personali, è il frutto nato dall’aver seguito la via che lui indica con chiarezza: essere un sole tra la gente, aprire una strada dove non c’è, e poi sorridere sempre come la signora Kaneko. Mi dicevo all’inizio: «Ma come fa a capire cosa c’è nel cuore della gente?». Dapprima non lo capivo neanch’io ma poi, perseverando nella decisione di seguire il suo esempio, ho rinnovato la mia promessa di realizzare kosen-rufu.