Critico cinematografico e giornalista dal 1997, nel 2000 Rita Di Santo si è trasferita a Londra dove ha collaborato come corrispondente per testate italiane e quotidiani britannici. Attualmente è responsabile della pagina di cinema di un quotidiano britannico e partecipa a giurie della critica dei festival internazionali
Come sei arrivata a capire che volevi fare il critico cinematografico?
Quando ho iniziato a praticare il Buddismo ero al liceo e non avevo idea di cosa fare nella vita. Il presidente Ikeda incoraggia sempre i giovani a studiare e a sforzarsi di vincere mettendo le cause lì dove si è. Io ho sempre cercato di farlo, è così che pian piano si è aperta la strada. All’università ho cominciato ad appassionarmi alla storia del cinema. In quel periodo facevo tanto Daimoku, tanta attività, e mi sono sforzata sempre di studiare bene. Così quindici giorni dopo la discussione della tesi sono stata chiamata dal professore con cui mi ero laureata per collaborare, e da qui si sono aperte nuove possibilità.
Mi è sempre piaciuto il cinema, mio padre mi ci portava da bambina. Avevamo una casa molto piccola ed era l’unico modo di farci stare buoni, me e mio fratello… Così si andava all’arena estiva e vedevamo tanti film. Ma non avrei mai immaginato che questa cosa, che sentivo così mia, potesse diventare in futuro il mio lavoro!
A un certo punto hai deciso di trasferirti all’estero…
Dopo circa dieci anni di attività nella Divisione giovani avevo il desiderio profondo di far crescere la mia vita ancora di più, soprattutto dopo aver ascoltato il discorso di sensei all’Università di Bologna in occasione del conferimento dell’anello dottorale nel 1994, dove aveva incoraggiato i giovani a diventare “cittadini del mondo”.
Così un giorno guardai il cielo e pensai: «Ho un lavoro, sono un critico cinematografico nazionale: adesso voglio diventare un critico internazionale!». Avevo ventisette anni e il fatto di sfidarmi, di andare a vivere in un paese straniero è stata una scelta molto importante. Avevo tutto a quell’epoca, lavoro, casa, genitori, amici, ma ho deciso di partire senza nessuna prospettiva certa.
Ho recitato tre mesi per non tornare indietro nella mia decisione, perché era molto, molto difficile restare qui, a Londra, dal punto di vista economico e psicologico. Io avevo il Gohonzon, che era l’unica cosa che mi faceva andare avanti. Devo dire che all’inizio non avevo nessuna pretesa di fare il critico, era soprattutto il senso di una nuova sfida. Per un po’ ho provato a cercare altri lavori, ma non ne usciva niente e così mi sono detta: «Ma perché devo rinunciare al mio desiderio?». E ho cominciato di nuovo a usare il Daimoku e l’attività per ricentrare il mio obiettivo, per fare la cosa che più amavo. Pensavo: «Se non è la cosa giusta non ne verrà fuori nulla, però intanto io mi sforzo in questa direzione».
Come mai hai scelto proprio Londra?
Mi sono detta: «Se il presidente Ikeda ci incoraggia a diventare cittadini del mondo, ma io non so neppure l’inglese, come faccio?». Sono partita da questo, volevo imparare l’inglese come strumento di comunicazione con le persone.
In questi anni è stato molto importante per me riuscire a rispettare la cultura di questo paese, imparare a comprenderla e a dialogare. È stato fondamentale anche impegnarmi per avere uno stato vitale sempre alto, per essere io a influenzare l’ambiente in cui mi muovevo e non sentirmi succube delle circostanze o aspettarmi qualcosa da fuori. La mia situazione obiettivamente era scoraggiante, ma a un certo punto, perseverando, si è aperta la strada.
All’inizio ero corrispondente di un quotidiano italiano, ma un giorno un’amica mi suggerì di provare a scrivere in inglese e pensai: «Perché no?». Così ho determinato, ho recitato Daimoku, e dopo poco mi è stata proposta una collaborazione con un quotidiano inglese, circa sette anni fa. All’inizio era solo saltuaria, ma io affrontavo ogni cosa con lo spirito di metterci tutta me stessa per vincere, per dare la prova concreta ai membri, per incoraggiare le giovani donne, per dimostrare il valore della pratica buddista.
Cosa significa per te creare valore in un ambiente come quello del cinema?
Sensei dice che la parola è un’arma importantissima, che la scrittura è una battaglia contro l’oscurità fondamentale. Quando scrivo cerco di tenere presente questo atteggiamento combattivo. Quando soffriamo tendiamo a chiuderci, a isolarci, io invece ho cercato continuamente di aprirmi, di creare legami cuore a cuore, e questo mi ha portata nel tempo a creare tante relazioni di amicizia. Questo desiderio che tutti intorno a te stiano bene le persone prima o poi lo sentono, è come una fragranza che si espande. Creare valore per me significa essenzialmente avere un dialogo sul Buddismo con gli altri basato sul desiderio che diventino felici.
Come pensi che il cinema possa aiutare le persone a vivere meglio?
Il cinema, come la letteratura o la danza, è una rappresentazione della vita.
È fondamentale alimentare attraverso l’arte questo senso di speranza, di profondo rispetto per la vita, far capire che l’essere umano ce la può fare. Nella cultura del passato c’è stato tanto attaccamento alla negatività, invece la mia sfida è che nel cinema possa esprimersi l’aspirazione alla felicità, alla speranza, alla gioia di vivere.
Come critico, in che modo puoi favorire una cultura di questo tipo?
Lavorando su me stessa, soprattutto, conducendo la mia lotta personale e riportando la mia vittoria in ciò che scrivo. Ad esempio, mi capita di fare molte interviste a registi, attori importanti. Indubbiamente ci sono delle competenze tecniche e professionali che si acquisiscono con l’esperienza e con lo studio, ma per me è fondamentale soprattutto lo scambio umano, ogni volta che faccio un’intervista cerco un dialogo sincero. Una recensione può aiutare un talento a emergere, ma può anche affossarlo. Gli articoli influenzano il pubblico, e quindi indirettamente la vita di tante persone che lavorano nel cinema.
Per me la cosa più importante è lodare, sentire che lo sto facendo non per me stessa, per soddisfare il mio ego, ma per contribuire a creare una cultura di pace. Quando ho partecipato alla giuria del Festival di Cannes, ad esempio, ho pensato: «Io sono qui come buddista, non sono qui in quanto Rita, rappresento una visione del mondo capace di migliorare la società». Il premio internazionale della critica a Cannes di solito viene assegnato a un regista emergente, un giovane. Il punto è proprio questo senso di responsabilità, la motivazione che c’è dietro la scelta di premiare un autore piuttosto che un altro, che cosa si vuole sostenere e promuovere.
Cosa consiglieresti a un giovane che incontra tante difficoltà a farsi strada in questo campo?
Gli direi di non scoraggiarsi, di rimanere ottimista fino in fondo. E poi lo incoraggerei a lottare con tutto se stesso là dove si trova.
Spesso i giovani pensano di non avere talento, perché questa società non è dalla parte dei giovani. Ma Daisaku Ikeda dice che il genio è fatto al novantanove per cento di sforzo e all’un per cento di talento, e cita Michelangelo e quei lunghi anni di grande fatica fisica che gli sono costati la Cappella Sistina… Sicuramente lo sforzo quotidiano e costante porta a un risultato grande. Ma questo sforzo deve essere gioioso, basato su una visione ottimistica del futuro.
Inoltre è fondamentale l’apertura al mondo, alle persone che ci circondano, e anche alle proprie qualità, al proprio talento. E poi il desiderio di dare, a noi stessi e agli altri. Mi ricordo che quando ero nella Divisione studenti il presidente Ikeda diceva che la migliore studentessa è quella che spegne la luce per ultima. Questo sforzo di andare fino in fondo, di mettere tutti se stessi, nel Daimoku, nella vita, non soltanto con la testa, è un atteggiamento che porta a un risultato di valore.
Mi viene in mente quella frase di Gosho che dice che l’arte della spada deriva dalla strategia del Sutra del Loto. Questo è fondamentale: noi possiamo recitare Daimoku per tirar fuori tutti i nostri talenti, per migliorare la nostra memoria o la capacità di concentrazione, per far uscire creatività e forza vitale, qualsiasi cosa. Anche fisicamente possiamo rivitalizzare sia noi stessi sia l’ambiente intorno, in modo tale da non sentirci mai vittime, perché se ci sentiamo vittime vuol dire che pensiamo che la responsabilità della nostra vita sia al di fuori di noi.
Decidere è la cosa fondamentale. Io posso anche non possedere niente, ma se ho un grande sogno da realizzare ho una enorme forza dentro.
Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?
Di migliorarmi e ringiovanire sempre di più, nel senso di rinnovare continuamente il mio atteggiamento come se fosse sempre il primo giorno, sia nel lavoro che nella pratica buddista, e di avere sempre il desiderio di imparare.
Di mostrare grandi prove concrete come discepola del presidente Ikeda nella società, e che la cultura e l’arte contribuiscano a creare un mondo pacifico basato su un profondo rispetto della vita.