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Il mio giuramento d'Ippocrate - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 14:45

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Il mio giuramento d’Ippocrate

Giuseppe Labate, medico fisiatra e direttore sanitario di un centro di riabilitazione a Carbonia, in Sardegna. Grazie alla risoluzione di una complicata relazione con il padre riscopre il valore della pratica buddista nella sfera personale e la sua missione come medico coltivando principalmente virtù umane come il dialogo e l’ascolto

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Giuseppe Labate, medico fisiatra e direttore sanitario di un centro di riabilitazione a Carbonia, in Sardegna. Grazie alla risoluzione di una complicata relazione con il padre riscopre il valore della pratica buddista nella sfera personale e la sua missione come medico coltivando principalmente virtù umane come il dialogo e l’ascolto

Quando hai capito che volevi fare il medico?

A cinque anni volevo diventarlo per emulare mio padre, medico anche lui e quando a vent’anni sono entrato alla facoltà di Medicina non avevo alcuna consapevolezza a riguardo: era come un percorso già tracciato e deciso dalla mia famiglia. Poi nel 1994, al quarto anno di corso, ho iniziato a praticare il Buddismo di Nichiren Daishonin e, da quel momento, qualcosa dentro di me ha iniziato a cambiare. È stato allora che ho scelto veramente di fare il medico.

Poi, una volta diventato fisiatra, hai iniziato a lavorare come dipendente nel centro di riabilitazione creato da tuo padre del quale a gennaio del 2012 sei diventato il direttore sanitario. Vuoi raccontarci come sei giunto a ricoprire questo ruolo?

Quando diversi anni fa ho iniziato a lavorare nel centro consideravo la mia vita abbastanza realizzata: con mio padre avevo sciolto vecchi rancori, imparando a considerarlo come una guida nello svolgimento della mia professione, il lavoro mi gratificava, avevo realizzato un matrimonio felice ed ero diventato padre. Sul piano della pratica, però, mi sentivo “stagnante” e quindi decisi di sfidarmi in quello che allora consideravo l’unico obiettivo impossibile: raddoppiare lo stipendio. Da quel momento la mia situazione lavorativa peggiorò e nel giro di breve tempo mio padre mi licenziò perché espressi il mio dissenso durante una riunione societaria. Tutto ciò fece riemergere un forte rancore nei suoi confronti, evidentemente non del tutto risolto. Decisi allora di approfondire il significato della frase del Gosho di Capodanno: «L’inferno è nel cuore di chi interiormente disprezza suo padre» (RSND, 1, 1008). Fu allora che compresi profondamente che la chiave di tutto era trasformare quel rancore e, alla fine, mi resi conto che la gratitudine verso mio padre e la mia famiglia era più importante della mia carriera o dei soldi. Accettai dunque le sue condizioni: lavorare nell’ambulatorio pagando un affitto. Rimasi molto sorpreso quando me l’offrì in comodato d’uso gratuito! Da quel momento iniziai a lavorare come libero professionista sia lì che in altri centri. Dopo diversi anni poi, quando mio padre si avviava alla pensione, si è prospettata l’ipotesi di vendere il centro. Inizialmente cercai anche degli acquirenti, fino a quando, avendo nel frattempo raddoppiato il mio stipendio, mi resi conto che potevo essere io l’acquirente. Così nel gennaio 2012 ne sono diventato il proprietario e direttore sanitario.

Cosa hai maturato grazie a questa esperienza?

Mi ha fatto crescere come figlio, come medico e come essere umano: tre aspetti che non sono affatto separati. Ho trasformato definitivamente il rapporto con mio padre, ora lo considero un vero e proprio shoten zenjin, cioè una funzione protettiva della mia vita. Se non mi avesse licenziato, non sarei potuto crescere dal punto di vista professionale; infatti con lui avrei lavorato esclusivamente nell’ambito della riabilitazione ortopedica, mentre invece mi sono aperto a quella neurologica e all’omeopatia. Vivere questa esperienza attraverso la pratica mi ha consentito inoltre di sviluppare un approccio completamente diverso con il paziente e ogni giorno mi permette di essere il tipo di medico che desidero essere.

Che tipo di medico vuoi essere?

Un medico “umano”. Scopo primario della mia professione, come recita il secondo comandamento del giuramento di Ippocrate, prestato dai medici prima di iniziare la professione, è quello di «perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell’uomo e il sollievo della sofferenza», ovvero di dedicarsi unicamente al bene del paziente invece di rincorrere tornaconti personali quali ad esempio fama, denaro o potere. La pratica buddista mi ha permesso di approfondire questo importante aspetto del mio lavoro rendendomi più chiara la mia missione come medico. Nel corso della mia esperienza lavorativa ho infatti imparato ad applicare nella cura dei miei pazienti il principio buddista della compassione (jihi), cioè dare felicità togliendo la sofferenza.

In che modo metti in pratica quanto hai detto?

Cerco di instaurare un legame di empatia con i pazienti curando molto la fase dell’ascolto. Sono convinto che la soluzione della patologia te la dà il paziente stesso, se tu sai ascoltare. E se sai ascoltare, fai tanta esperienza. Io non applico la teoria al paziente in modo indiscriminato, ma prima lo ascolto, lo visito attentamente e poi faccio collimare tutti gli elementi che ho a disposizione.

Vuoi raccontarci un’esperienza in merito?

Nel periodo in cui ero stato licenziato da mio padre, giunse nella clinica dove lavoravo un uomo di quarant’anni, malato di sclerosi multipla e reduce da un incidente politraumatico che lo costringeva in sedia a rotelle. Riteneva che la vita fosse stata molto ingiusta con lui e per questo era molto aggressivo e scostante. In poco tempo però, oltre a occuparmi della sua riabilitazione, sono riuscito ad avvicinarmi al suo cuore attraverso il dialogo. Gli ho parlato anche dell’immenso potere di questa pratica e lui a poco a poco ha cambiato atteggiamento. Questo ha consentito il suo inserimento in un progetto già in corso con altri pazienti, grazie al quale ha riacquisito la capacità a socializzare. Da aggressivo e sofferente che era, alla fine del percorso, intratteneva tutto il reparto suonando la chitarra e trascinando tutti in un clima di gioia e di festa. In quel momento ho compreso che si era creato un valore immenso. Quando poi ha ripreso a camminare, ha pure partecipato a una riunione di discussione. Ecco, questo è il tipo di esperienza che voglio continuare a portare avanti come medico buddista.

“Otto Venti” è il nome che hai dato al centro. Perché?

“Otto Venti” per me ha tre significati. Il primo allude all’orario in cui desidero tenere aperto il Centro, così da offrire un servizio il più completo possibile. Il secondo richiama nel mio immaginario la rosa dei venti, nella quale sono indicate tutte le direzioni del vento. Allo stesso modo intendo orientare la mia attenzione e la cura verso il paziente, senza tralasciare alcun particolare. Il terzo si ricollega al Gosho ed è quindi connesso al mio percorso di vita. È una sorta di monito per ricordarmi di non rimanere vittima degli “otto venti”: prosperità, declino, onore, disonore, lode, biasimo, sofferenza e piacere, e per capire quale direzione prendere ogni giorno.

Il tuo è un lavoro molto impegnativo in termini di tempo e di energie da dedicare alla professione stessa e ai pazienti. Come riesci a dare il meglio di te?

Parlare agli altri del Buddismo e partecipare alle riunioni di discussione. Fin dal principio parlare agli altri di Buddismo mi ha dato la certezza che avrei realizzato ciò che desideravo. E ora che ho ricevuto benefici immensi, trasmettere il potere di questa pratica agli altri mi permette di non dimenticarlo mai, anche di fronte alle difficoltà o ai casi difficili che posso incontrare quotidianamente. Inoltre, il momento della riunione di discussione per me è un punto fermo. Cerco in tutti i modi di tenermi libero e offro la mia casa proprio perché così non posso mancare all’appuntamento!

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