«Si dice che ci siano due cose che gli esseri umani non sono capaci di guardare in faccia: il sole e la morte», scrive Daisaku Ikeda. Pieni di paura e sofferenza, la sola parola “morte” ci appare come sinonimo di tragedia
«La civiltà moderna ha cercato di dimenticare e di ignorare la morte, allontanando lo sguardo da un problema di importanza fondamentale. Così si è finito per considerare la morte come un evento da aborrire e da ridurre nell’ombra. Per gli individui del nostro tempo la morte è mera assenza di vita, è il vuoto, è il nulla. Mentre la vita viene identificata con la luce, con tutto ciò che buono, razionale, la morte non è altro che il male, il niente, il buio, l’irrazionale. Prevale quasi sempre una percezione negativa della morte» (Il Buddismo Mahayana e la civiltà del XXI secolo, discorso pronunciato da Daisaku Ikeda all’Università di Harvard il 24 settembre 1993, DU, 43, 14).
Agli antipodi di questa attitudine negativa che ci ha allontanato dalla questione fondamentale, Nichiren ci invita, al contrario, ad approfondire il tema della morte prima di ogni altro.
Di fatto, esso rappresenta il punto di partenza e la ragion d’essere del Buddismo, così come viene illustrato nella celebre storia dei “quattro incontri”. Si racconta infatti che una prima volta, durante la giovinezza, mentre usciva dal suo palazzo dalla porta est, Shakyamuni, il Budda storico, vide un vecchio; poi, la volta successiva, dalla porta sud, vide un malato; dalla porta ovest un cadavere. Infine, durante la sua quarta uscita, dalla porta nord, incontrò un religioso e non appena prese coscienza dell’esistenza delle quattro sofferenze inerenti alla vita (nascita, malattia, invecchiamento e morte), decise di partire alla ricerca dell’Illuminazione. In seguito insegnò per molti decenni ciò a cui si era risvegliato. Ma è solo nel Sutra del Loto, apice del suo insegnamento, che riuscì a chiarire completamente la questione della morte, cuore delle preoccupazioni umane e del Buddismo.
Le due facce dell’eternità
«Shakyamuni ci indica Daisaku Ikeda considerava la sua morte come un mezzo che lo avrebbe aiutato a realizzare il suo scopo fondamentale, la salvezza di tutti gli esseri. Spiegò ai suoi seguaci che, se fosse rimasto per sempre in questo mondo, le persone avrebbero fatto affidamento su di lui anziché sulle loro capacità. Per questo motivo il Budda non rimane perpetuamente in questo mondo ma appare e scompare ciclicamente, spingendo in tal modo le persone a ricercare la compassione e la saggezza del Budda attraverso i suoi insegnamenti e i propri sforzi individuali» (D. Ikeda, I misteri di nascita e morte, esperia, pag. 111).
Potremmo pensare che si tratti di un’esperienza soggettiva, che riguarda solo il Budda. Ma questo non è vero, poiché lo scopo di Shakyamuni non era quello di elevarsi al di sopra degli altri esseri umani, ma di rivelare loro uno stato di vita comune a tutti, che chiunque potesse far emergere.
«Analogamente prosegue Daisaku Ikeda , anche la morte di ogni individuo è un mezzo per un fine, un mezzo, cioè, per la rinascita. Invecchiando diventiamo deboli e malati e alla fine moriamo. Ma non moriamo invano, moriamo allo scopo di cominciare una nuova vita. Lo scopo fondamentale della morte è dunque quello di permetterci di rinascere, proseguendo il nostro eterno ciclo vitale» (Ibidem).
Così, dunque, da persone comuni, intimoriti dalla morte concepita come qualcosa di estremamente negativo, tendiamo a opporla al concetto di vita, ma una volta risvegliati ci rendiamo conto che vita e morte rappresentano le due facce dell’eternità della vita.
Passato, presente e futuro
Per spiegare questo concetto Josei Toda, secondo presidente della Soka Gakkai, fece ricorso all’immagine della veglia e del sonno. Lo stato di veglia corrisponde alla vita; il sonno, che ci permette di ricaricarci prima del nostro salto verso una nuova giornata, alla morte. Come il sonno è indispensabile per gustare giornate piene di vitalità durante le quali diamo il meglio di noi stessi, abbiamo bisogno della morte per rigenerarci e realizzarci.
Nel Buddismo, questa non dualità di vita e morte non corrisponde soltanto a una visione rassicurante del mondo, destinata a rendere più confortante la nostra condizione umana. Anzi, essa ci conduce ad agire concretamente per raggiungere un benessere profondo, che si estende alle tre fasi della vita (passato, presente, futuro), vale a dire l’eternità.
Per coloro che sperimentano lo stato di Buddità, Nichiren Daishonin dice: «Quando la loro vita giungerà al termine, esse saranno accolte dalle mani di mille Budda che le libereranno da ogni paura e impediranno loro di cadere nei cattivi sentieri dell’esistenza» (RSND, 1, 190). Oppure, come scrive Daisaku Ikeda: «Quando siamo vivi siamo Budda viventi, quando moriamo siamo “Budda nella morte”. Nichiren Daishonin si riferisce a questo principio quando dice: “Questa è la profonda dottrina del conseguimento della Buddità nella forma presente” (RSND, 1, 403)» (La nuova rivoluzione umana, vol. 26, cap. 1 “Atsuta”, puntata 43, da ilvolocontinuo.it). Nella sua famosa lettera Il conseguimento della Buddità in questa esistenza Nichiren non solo ci invita a lucidare lo specchio della nostra vita giorno e notte attraverso la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo, ma anche a liberarci delle sofferenze di nascita e morte, vale a dire a riportare la vittoria più profonda che si può ottenere come esseri umani (cfr. RSND, 1, 3). Questo illustra bene l’infinita compassione del Budda nell’Ultimo giorno della Legge, che auspica, per suoi discepoli, il più grande beneficio per l’eternità.
È con questo stesso spirito che siamo incoraggiati a condividere la Legge mistica nel nostro ambiente, affinché persone a noi care o anche sconosciuti nostri fratelli o sorelle all’interno della grande famiglia umana possano ugualmente raggiungere questo beneficio supremo che trascende vita e morte.
Influenzare i vivi e i defunti
La nostra pratica non si limita alla nostra ristretta esistenza presente, ed è quello che dà senso alla quarta preghiera che si legge mattina e sera: «Prego per tutti i miei parenti, per gli amici e per tutti i defunti, in particolare per…». Possiamo non solo influenzare la vita degli esseri viventi (e permettere loro così di sperimentare la gioia della Buddità), ma anche quella delle persone “scomparse”, espressione impropria se si considera quanto siano ancora presenti nella parte più profonda della nostra vita.
Negli Insegnamenti orali Nichiren Daishonin scrive: «Ora quando Nichiren e i suoi seguaci svolgono cerimonie per i defunti, declamando il Sutra del Loto e recitando Nam-myoho-renge-kyo, il raggio di luce del Daimoku penetra fino all’inferno della sofferenza incessante e rende possibile che [i defunti] conseguano immediatamente la Buddità» (BS, 109, 47). Sono innumerevoli le lettere nelle quali Nichiren incoraggia i discepoli colpiti dalla morte dei propri cari. A una madre che ha perso il figlio, scrive: «Eppure c’è un modo per incontrarlo presto. Con il Budda Shakyamuni come tua guida, puoi andare a incontrarlo nella pura terra del Picco dell’Aquila. […] Non potrà mai accadere che una donna che recita Nam-myoho-renge-kyo non si riunisca al suo adorato figlio» (RSND, 1, 968). A un uomo che pregava per il suo defunto padre disse: «Questi caratteri sono cinquecentodieci, ciascuno di essi si trasforma in un sole e ciascun sole si trasforma in un Tathagata Shakyamuni. […] Essi visitano il regno in cui dimora il tuo defunto padre, ovunque possa essere, e gli parlano» (RSND, 1, 461). Daisaku Ikeda commenta così questo ultimo estratto: «I caratteri del Jigage sono preziosi. Ognuno di essi viene trasformato in un sole e poi in Budda ed emette una luce brillante che illumina tutto l’universo. Va da sé che lo stesso valga per la potente luce del Daimoku. Grazie a questa luce noi possiamo comunicare con i membri defunti della nostra famiglia come se si trasmettessero loro onde di vita. In questo risiede la grandezza del Buddismo di Nichiren Daishonin. La forza del Daimoku è gigantesca».
Se gli esempi precedenti hanno per argomento la famiglia, è chiaro che, nello spirito universale del Buddismo, questo riguarda anche i nostri cari, gli amici, tutti quelli per i quali noi preghiamo e, oltre a questo, “tutti i defunti”, secondo le parole della nostra quarta preghiera.
In definitiva, superando la dualità di vita e morte, e aiutandoci a superare il dolore della separazione, la pratica del Buddismo ci permette di essere felici e di contribuire al benessere degli altri, viventi o meno. «I benefici che noi stessi otteniamo dalla pratica buddista, si trasmettono ai defunti grazie alla luce dorata della pratica di Gongyo. Ecco il senso originale di eko (la preghiera per i defunti). […] Eko viene da eten shuko che significa “apportare benefici agli altri”. La maniera migliore di pregare per i defunti è di essere felici e aiutare gli altri a diventarlo. È per arrivare a questo che noi facciamo attività all’interno della Soka Gakkai. Questa è la conclusione che si può trarre dagli scritti di Nichiren».
(traduzione di Federica Garbato – ha collaborato Laura Bernocchi)