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Essere felici grazie a un voto - DEV - Il Nuovo Rinascimento
Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai

Buddismo per la pace, la cultura e l’educazione

6 dicembre 2025 Ore 15:41

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    Essere felici grazie a un voto

    Un voto antico e prezioso che si manifesta in forme diverse a seconda delle peculiarità di ognuno, per colorare sfide e obiettivi personali delle tinte di una felicità più grande. Quella condivisa

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    Un voto antico e prezioso che si manifesta in forme diverse a seconda delle peculiarità di ognuno, per colorare sfide e obiettivi personali delle tinte di una felicità più grande. Quella condivisa

    Il 18 novembre dell’anno scorso è stato inaugurato in Giappone il Kosen-rufu Daiseido, la sede centrale della Soka Gakkai costruita nel quartiere di Shinanomachi, a Tokyo. È la sede del movimento portato avanti dalla Soka Gakkai e il suo nome, “Palazzo del grande voto di kosen-rufu“, ricorda a ciascuno di noi che il punto di origine, il cuore della nostra pratica risiede proprio in questa semplice parola: “voto”. Nel Buddismo quando si parla di voto si intende il “desiderio che tutte le persone siano felici”.
    In un discorso tenuto nel 1993 a Rio de Janeiro, il presidente Ikeda afferma che il Buddismo esiste per una semplice ma profonda ragione, rendere felici le persone, e che tale ragione è anche il fine ultimo della vita stessa. «Qual è l’obiettivo della vita? – scrive Ikeda – È diventare felici, e questo è lo stesso scopo del Buddismo e della fede» (BS, 166, 11).
    La felicità è l’aspirazione della vita. Parole che faccio un po’ fatica a comprendere fino in fondo, non perché siano particolarmente complesse, quanto forse per la mia scarsa consapevolezza in merito. Fin da piccolo non ho mai sentito parlare dell’importanza di essere felici e tantomeno che questo desiderio potesse costituire la base di tutta un’esistenza, o addirittura il suo motivo d’essere. Nella mia vita la mancanza di felicità non è mai stata argomento di attente riflessioni, né diventare felice era tra i miei desideri primari. Ma quando ho iniziato a recitare Nam-myoho-renge-kyo è stato come se un arciere mi avesse conficcato una freccia proprio lì, sotto a tutto, toccando un’intima domanda che forse rappresenta il cuore della mia esistenza: io sono felice?
    Non è facile rispondere perché facile non è comprendere che cosa sia la felicità. Il secondo presidente della Soka Gakkai, Josei Toda, una volta disse a tal proposito: «Esistono due tipi di felicità: la felicità assoluta e la felicità relativa. Felicità assoluta è ottenere l’Illuminazione. […] Felicità relativa significa soddisfare uno dopo l’altro i vostri desideri quotidiani: per esempio avere un milione di yen, una bellissima moglie, dei bei figli, una bella casa, bei vestiti e così via. […] Tale felicità non ha un grande valore, tuttavia tutti sono convinti che sia questa la felicità» (Ibidem).
    La prima volta che ho sentito queste parole, all’inizio del mio percorso buddista, mi sono reso conto della loro verità: una bella famiglia, un buon lavoro e una bella casa non erano infatti riusciti a influenzare quella parte di me che profondamente non si sentiva felice. Ma allora cosa avrei dovuto fare?
    È in quei primi mesi di pratica che in maniera molto naturale ho capito quale poteva essere la strada in grado di attraversare la zona d’ombra che risiedeva dentro il mio cuore. Ricordo che ogni mattina quando mi sedevo di fronte al Gohonzon felice per tutto quello che stava accadendo nella mia vita, c’era una preghiera che accendeva in me una felicità fino ad allora sconosciuta: pregavo perché i miei amici diventassero felici. Ho ancora il quaderno dove poi trascrivevo questi desideri… «Desidero la serenità di mio fratello», «Desidero che la Vale trovi la forza di affrontare i suoi problemi e diventi felice», «Desidero che Strikky trovi la felicità e una persona che la tratti come una regina»… solo per citarne qualcuno.
    Ricordo anche le prime recitazioni, le prime riunioni di discussione, il Daimoku, imparare Gongyo, le prime letture di Ikeda, tutte azioni concrete che mi facevano assaporare la gioia che si prova quando senti che ti stai prendendo cura di te e degli altri. Ogni volta che mi preoccupava la situazione di un amico o che affrontavo un problema personale pensavo: «Ok, recito Daimoku, studio il Gosho, chiamo un compagno di fede per incoraggiarci l’un l’altro». È così che tanti amici si sono avvicinati alla pratica e io ho potuto percorrere per la prima volta la strada per entrare in contatto con la parte profonda di me che non riusciva a essere felice: quella dello shakubuku.

    La strada per la felicità

    Per i praticanti del Buddismo di Nichiren Daishonin il desiderio della felicità degli altri è il cuore della pratica e condividere l’insegnamento rappresenta la strada diretta per raggiungere tale obiettivo. «Anche donando a qualcuno ricchezze e tesori infiniti – afferma Ikeda – non gli garantiremo una felicità duratura. L’unico modo per rendere le persone veramente felici è lo shakubuku, condividere con loro la Legge mistica» (NR, 474, 4).
    Nichiren Daishonin tratta il tema della felicità in molti suoi scritti dichiarando esplicitamente: «Il mezzo meraviglioso per porre veramente fine agli ostacoli fisici e spirituali di tutti gli esseri viventi non è altro che Nam-myoho-renge-kyo» (Il meraviglioso mezzo per superare gli ostacoli, RSND, 1, 747); e in uno dei più conosciuti, Felicità in questo mondo, esprime l’intuizione alla quale è giunto: «Non c’è vera felicità per gli esseri umani al di fuori di recitare Nam-myoho-renge-kyo» (RSND, 1, 607).
    Nella mia esperienza ho potuto sperimentare che tale strada non conduce solamente gli altri alla felicità, ma anche se stessi. Essa rappresenta infatti il modo concreto per entrare in contatto con lo stato vitale del Budda che è un tutt’uno con il desiderio di rendere felici tutti gli esseri viventi.
    Nel messaggio per l’inaugurazione del Kosen-rufu Daiseido il presidente Ikeda scrive: «Il cuore del grande voto di kosen-rufu e lo stato vitale della Buddità sono la stessa cosa. Perciò, quando dedichiamo le nostre esistenze a questo voto, possiamo far emergere la suprema nobiltà, la forza e la grandezza delle nostre vite. Quando rimaniamo fedeli a questo voto, il coraggio senza limiti, la saggezza e la compassione del Budda fluiscono da dentro di noi. Quando ci sforziamo con tutto il cuore di realizzare questo voto, il “veleno” della sfida più difficile può essere trasformato in “medicina”, così come il karma può essere trasformato nella nostra missione» (NR, 526, 9).
    Ognuno di noi che si impegna nel portare avanti il movimento di kosen-rufu tramite la dedizione, la fede e gli sforzi sinceri, come risultato potrà godere della più alta condizione vitale che vive proprio nell’impegno di portare avanti la pratica giorno dopo giorno.

    Maestro e discepolo: un’esperienza personale

    «Il Daishonin insegna che la vita del Budda è una realtà – afferma Ikeda – e per questo ci esorta a dedicare la vita al grande desiderio di kosen-rufu. La vita di coloro che fanno proprio questo desiderio e lavorano con impegno e costanza per realizzare ciò che hanno promesso, senza regredire nella fede, gradualmente si fonde con la vita del Budda e manifesta lo stato di Buddità» (MDG, 9).
    Non è sempre facile “non regredire”. A me capita spesso di “dimenticare” tutto quello che leggo e che mi incoraggia, e dimenticandolo è come se non fossi più in grado di comprendere il perché di determinate situazioni o eventi e di capire come avanzare, quale direzione prendere.
    Per questo motivo ogni volta che affronto il “mio” dolore, quella mancanza di felicità che mi accompagna da sempre e che oltretutto sento di meritare come giusta punizione, chissà poi per cosa, penso a sensei. È una relazione personale quella con il maestro, difficile da mettere nero su bianco. Quando penso a lui la prima cosa che avviene dentro di me è che sento una voce dirmi chiaramente “tu sei un Budda, tu sei un mio discepolo”. È la cosa più preziosa che ho. Niente nella mia vita ha maggior valore e questa voce arriva anche quando commetto errori, quando sbaglio nel prendermi cura dei miei genitori o mi dimentico dei compleanni delle persone a me care. Potrei continuare all’infinito.
    È sempre con me, combatte per rendermi felice, combatte profondamente con il male della mia vita. Mi ricorda, ogni volta che lo cerco, che merito di essere felice.
    E non è l’alleato migliore solo per quanto riguarda la mia felicità. Egli lotta al mio fianco per la felicità dei miei amici, di mio fratello, della mia famiglia, battaglia nella quale la rinuncia e il demone che mi fa pensare “quella persona non ce la farà mai” è sempre in agguato. Ed è con me anche nell’attività buddista, nel lavoro, nei miei obiettivi per kosen-rufu, nella costruzione della mia nuova relazione sentimentale.
    Ogni volta che lo cerco e vedo la sua vita mi ricordo che per vincere bisogna formulare un voto perché solo un giuramento può avere la forza di farci arrivare fino alla fine.
    Per me questo voto non è nulla di particolarmente complicato, si esprime nel rifiuto di mettere in dubbio le parole del mio maestro, nell’orgoglio di essere un suo discepolo. E per credere alle sue parole devo prima conoscerle. Per questo motivo nella mia vita lo studio ha un significato autentico, è lì che trovo sensei, è lì che trovo Nichiren, e comprendo il loro modo di pensare e di agire. Non è importante ricordare, ma vivere quel momento come se fosse la costruzione di un’amicizia.
    È insieme al maestro che trovo la sorgente di ogni mia impresa, piccola o grande che sia, e il punto di origine del mio voto come discepolo.
    In uno dei suoi scritti recenti sensei parla della sua relazione con il maestro Toda: «Quando noi discepoli recitiamo Nam-myoho-renge-kyo tenendo nel cuore il nobile voto di kosen-rufu, intraprendiamo azioni per realizzarlo e ricerchiamo sinceramente l’insegnamento del maestro sforzandoci di emularne lo spirito, la sua stessa saggezza si manifesterà potentemente nella nostra vita» (NR, 538, 7).

    Il voto dei discepoli

    Alcuni mesi fa, quando abbiamo deciso di preparare questo articolo, siamo partiti proprio dai discepoli a cui abbiamo chiesto di riflettere sul significato del voto nella loro vita. Un lungo viaggio che ha prodotto un’infinità di pensieri diversi, quasi a significare che per parlare del voto di kosen-rufu, proprio per il suo legame profondo con la vita di ciascuno e ciascuna di noi, è necessario tenere in considerazione ogni differenza, ogni modo di vivere e di pensare.
    Marika pratica da qualche anno; dopo aver visto il cambiamento della madre si è decisa a provare a recitare Daimoku anche lei. Voleva incontrare nuovamente suo padre, con il quale i rapporti si erano interrotti qualche tempo prima. «Recitando Daimoku – ci racconta – sono riuscita a realizzare questo grande desiderio. Purtroppo dopo qualche mese mio padre se ne è andato di nuovo… soffrivo tanto e non sono più riuscita a praticare. Ma mia madre continuava a incoraggiarmi ad andare fino in fondo e dopo qualche tempo sono riuscita a riavvicinarmi alla pratica. Grazie alle guide di sensei ho capito che formulare un voto significa andare fino in fondo».
    Per Marzia il fulcro del voto è la relazione con il presidente Ikeda: «Nella mia pratica questo aspetto è fondamentale in quanto mi allena ad avere totale fiducia nelle persone. A volte non è semplice ma sento che se riesco ad avere piena fiducia nel mio maestro, in ciò che lui dice, allora questa fiducia si riflette su tutti gli aspetti della mia vita. È uno sforzo che mi serve per imparare a credere che ogni persona è preziosa. Non è semplice. Il problema più grande è continuare a crederlo, anche quando hai uno stato vitale basso. Ci sono dei momenti in cui mi sento un Bodhisattva che emerge dalla Terra con tutto il peso della terra che sto sollevando… pensare agli altri però mi fa apprezzare anche il momento difficile che sto vivendo, e in quel momento mi scopro rivolta a qualcosa di più grande e costruttivo. Per me fare un voto è dare speranza agli altri».
    Gianfranco (al centro fra Emanuele, a sinistra nella foto, e Giuliomario), studente universitario, ci racconta che per lui formulare un voto significa cogliere un’occasione più grande. «Prima di essere buddista studiavo per dimostrare agli altri quanto ero bravo, ma in seguito ho sperimentato quanto è bello non chiudersi nella propria preoccupazione e anche in sede d’esame avere lo spirito di aiutare le persone. Quando una persona viene da te e ti ringrazia perché le hai spiegato un argomento o l’hai incoraggiata è veramente bellissimo, non c’è voto – d’esame, intendo – che tenga».
    «Ogni anno recito per comprendere che cosa significa essere un vero discepolo – inizia Emanuele – e ho riflettuto che un vero discepolo è proprio colui che formula questo voto. Se non facciamo il voto di vincere nella nostra vita, di portare avanti kosen-rufu, non possiamo essere dei veri discepoli. Nel concreto fare un voto secondo me significa insistere nella propria lotta, “non mollare mai”; ogni volta che decidiamo di non mollare noi riconfermiamo il nostro voto. Se mi chiedessero che cosa è cambiato grazie a questo impegno direi che è cambiato il motivo che sta alla base del desiderio di vincere: la mia vittoria personale è diventata qualcosa che serve a incoraggiare gli altri. Questa è la differenza tra perseguire un successo per il proprio piacere, magari anche a discapito degli altri, e vincere veramente. Praticando il Buddismo si vince sempre insieme, quantomeno quando si riesce a cogliere il cuore del bodhisattva, quella direzione che non va verso di me, ma verso gli altri. Quando riusciamo a interpretare veramente questo desiderio del Budda recitando Daimoku di fronte al Gohonzon, allora stiamo dando forma a questo voto».
    «Secondo me fare un voto – afferma infine Giuliomario – significa occuparsi del mondo vicino a te, del tuo palazzo o della tua scuola. A scuola abbiamo un insegnante non proprio “perfetto”. Tratta sempre male gli alunni, è una persona burbera che a volte umilia gli studenti, tutto il contrario dell’educazione Soka. Dentro di me ho sempre pensato: “Non può essere un Budda… che professore è se tratta male gli studenti e li fa sentire a disagio invece che incoraggiarli?”. Oltre a provare rabbia, anche i miei voti erano molto bassi. Una mattina avevo l’interrogazione con lui, programmata da tempo; prima di andare a scuola ho fatto Daimoku, come già era successo, ma quella mattina non ho recitato per prendere un bel voto ma perché lui potesse stare bene… ho desiderato la sua felicità. Quando sono arrivato in classe non potevo credere ai miei occhi; non l’avevo mai visto così contento, si è aperto molto raccontandoci la sua vita, di quando lui era giovane e lavorava nei teatri… Era veramente felice e ha messo otto a tutti! Ho capito che è veramente difficile riuscire a mantenere un atteggiamento in linea con ciò in cui credo, perché è la vita stessa a essere difficile e altalenante. Il mio sforzo concreto per riuscirci è partire sempre dal Daimoku, come ci dicono Ikeda e Nichiren Daishonin, è fare lo sforzo di recitare Nam-myoho-renge-kyo, che è l’unico modo di mettere in pratica la nostra fede. Continuare a pregare, perché senza il Daimoku non riuscirei a concretizzare nulla di tutte le cose belle che leggo.
    Ultimamente mi sto sforzando molto e spesso mi capita di sentirmi soffocato e di pensare: “Perché lo sto facendo?”. Poi mi rispondo che questo sforzo è necessario per la mia vita, perché altrimenti non crescerò mai come persona. Non posso dire che ho capito bene che cosa significa questo voto, però ho capito che per essere felici nella vita e diventare persone forti e di valore bisogna sforzarsi».

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