Il Tribal Jazz è una danza che nasce dall’incontro e dalla fusione tra più culture. È uno stile che vuole recuperare la radice sacra e rituale della danza adattandola ai tempi moderni, come ci racconta Maria Grazia Sarandrea, ballerina e coreografa
Sei tu che hai ideato in Italia il Tribal Jazz. Come ti è nata l’idea?
Al Festival di Torino del 1995 facevo attività artisti per realizzare le coreografie dello spettacolo Onda. In quell’occasione, l’allora direttore generale Mitsuhiro Kaneda incoraggiò gli artisti spronandoli a impegnarsi nel “creare qualcosa di nuovo”. Il Tribal Jazz è nato prendendo spunto da quell’incoraggiamento. Ho sempre avuto un forte interesse per le danze tribali e rituali e ho studiato, sia in teoria che in pratica, diversi stili di danza. Negli insegnamenti buddisti, in modo specifico quello di apprezzare le differenze e vederle come un valore, ho trovato la chiave per sviluppare la mia particolarità artistica. È una tecnica che fonde ritmi e movimenti tribali di diverse culture – indiana, africana, medio-orientale – a quelli delle danze tipiche occidentali, moderna, contemporanea e jazz. Gli elementi fondamentali del Tribal Jazz sono il respiro, lo studio di nuovi equilibri, il contatto con la terra, lo sviluppo di una maggiore consapevolezza corporea. I movimenti prendono ispirazione dal regno animale e dalla natura, per sviluppare fluidità e forza. Un’elaborazione che fa dialogare culture diverse nell’espressione del corpo, si guarda al passato, ma poi lo sguardo va verso il futuro. Ecco perché il nome Tribal Jazz.
Per te cosa rappresenta questo modo di danzare?
Nel danzare sento un senso di libertà e di energia, una gioia che solo il corpo può manifestare quando esprime sensazioni ed emozioni profonde.
La danza è un’esperienza unica, individuale e collettiva, di profonda unità con le energie universali, è il luogo in cui tutte le differenze scompaiono per lasciar spazio alla creatività e allo sviluppo di una personalità più forte e spontanea, all’insegna del benessere psicofisico… non è danzando che i bodhisattva emergono dalla terra?
Quando hai iniziato a danzare?
È un amore che coltivo fin da piccola, ma non pensavo di arrivare a farne la mia professione. Mi era stata inculcata l’idea del “posto fisso” e la danza era decisamente agli antipodi.
Hai avuto difficoltà in famiglia a far accettare la tua passione?
Sì, ma grazie al sostegno della pratica buddista, i miei genitori alla fine hanno accettato l’idea. L’incontro col Buddismo a diciassette anni è stato fondamentale. Recitare Daimoku mi ha dato la sicurezza e il coraggio di scegliere la strada giusta, sono riuscita a capire e a decidere quello che m’interessava davvero.
E poi cosa è accaduto?
Dopo la maturità classica mi sono iscritta alla facoltà di Lettere – Discipline dello spettacolo. Durante l’università continuavo a studiare danza, ho cominciato anche a insegnarla e a partecipare a numerosi spettacoli. In quegli anni mi sono appassionata all’antropologia della danza e ho deciso di laurearmi sulla danza indiana Chhau. In Italia non c’era alcun documento sul quel tipo di danza per cui sono dovuta andare in India, ho studiato nei villaggi, ho raccolto documenti scritti, materiale fotografico e ho girato un video, tutte cose molto rare. La mia tesi è stata la prima in Italia su quest’argomento. Prima di partire per l’India però è successo qualcosa che ha tentato di far vacillare la mia scelta perché un giorno, dopo aver recitato molto Daimoku sono stata selezionata in un’audizione dei Momix. Lavorare con i Momix è un po’ il massimo per un danzatore, però, nonostante la fortuna di essere stata scelta, ho preferito finire i miei studi. Dopo la laurea ho dovuto fare un’altra scelta: continuare come ricercatrice o danzare? Il coraggio di prendere una direzione ben precisa era necessario, il mio più profondo desiderio era danzare utilizzando anche gli sudi fatti per sviluppare il mio linguaggio creativo.
Creare una cosa nuova è sempre molto difficile, quali ostacoli hai incontrato?
Gli ostacoli sono soprattutto con noi stessi. Il primo ostacolo è stato decidere che avrei intrapreso questa strada e che sarebbe diventato il mio lavoro, la mia vita. Lo desideravo tanto, ma in fondo non ci credevo, lavorare con la danza mi sembrava una cosa impossibile. Ho sempre recitato tanto Daimoku e ho partecipato a tutte le attività che mi venivano offerte. Mi hanno incoraggiato molto le parole del presidente Ikeda che loda gli artisti perché rendono il mondo più gioioso e colorato. Mi ricordo un incoraggiamento che più o meno diceva: siate i re dell’allegria, qualunque cosa accada trasformate la vita in gioia, interpretando una grande commedia, per divertire gli altri e divertendovi voi stessi. Quello che ridetermino ogni giorno è di percepire il mio valore in ogni azione che compio. Grazie agli sforzi che ho sempre fatto nell’attività e nella pratica buddista ho avuto tanta fortuna nel lavoro. Numerosi giornali hanno parlato del Tribal Jazz, ho partecipato a varie trasmissioni televisive e radiofoniche in cui si metteva in evidenza anche l’aspetto salutistico di questa nuova disciplina.
La tua danza ha anche una funzione terapeutica?
La danza in generale ha un valore terapeutico, perché attraverso il movimento il corpo può esprimere le emozioni che abbiamo dentro, è una forma di liberazione di quanto ci sia in ogni individuo di profondo e invisibile. Ancor più il Tribal Jazz che esalta movimenti naturali e sviluppa energie sopite. Il mio intento nel creare questa tecnica è quello di dare uno strumento per risanare ogni giorno il proprio corpo. Gli antichi consideravano la danza come un’arte d’ispirazione divina e di elevazione morale e civile. La danza ha il compito di far star meglio le persone provocando quel benessere a cui tutti aspiriamo.
Il tuo percorso è iniziato da ragazza, vuoi dire qualcosa ai giovani di oggi?
Iniziare a praticare a diciassette anni ha voluto dire avere la possibilità di fare realmente delle scelte relative al futuro. Il Daimoku mi ha fatto capire quanto sia importante realizzare i propri sogni. Nel lavoro si sviluppa la nostra personalità e il Buddismo spiega quanto sia importante manifestare al massimo le proprie potenzialità per essere felici. Col tempo arrivano nuove idee, nuovi desideri che aiutano a incidere sempre più nell’ambiente in cui si è. Il mio sogno era lavorare come danzatrice e nello stesso tempo diffondere la cultura della danza, che in Italia è un po’ il fanalino di coda tra le arti. Questi desideri mi hanno portato a lavorare anche per l’università, collaborando con gli stessi professori con cui avevo studiato, ho pubblicato molti articoli sulle danze etniche, sono stata invitata in alcune scuole a parlare con i ragazzi delle mie ricerche e dei miei spettacoli. Ho anche avuto la possibilità di partecipare a un programma televisivo come danzatrice e coreografa. In ogni puntata inventavo una danza diversa dando sfogo a tutta la mia creatività. In quel periodo credo di aver sostenuto molti colleghi, proprio perché, se ero lì, certamente lo dovevo ai miei studi e al mio coraggio, ma soprattutto al Daimoku che sempre più mi ha permesso di credere in me stessa. Quando si ha un’idea forte e si crea qualcosa che nessun altro ha mai fatto alla fine si raggiungono cose che sembrano impossibili. I miei genitori, a quel punto, sono diventati i miei primi fans!
Organizzi dei corsi anche per i più piccoli?
Sì, lavoro anche con i bambini che sono il nostro futuro. È importante portarli a sperimentare attraverso la danza una maggior consapevolezza del proprio corpo in movimento nello spazio, per migliorare il rapporto tra mente e corpo, sviluppando quell’armonia che genera benessere. Ho dedicato ai bambini alcuni spettacoli interattivi, in cui insieme eseguiamo ritmi, canti e danze.
È sorprendente vedere la loro gioiosa partecipazione.
Hai dei progetti per il futuro?
Diffondere l’arte della danza in ogni modo possibile e in ogni luogo: scuole, università, centri culturali, ospedali ma anche teatri e luoghi diversi. Generare un interesse culturale intorno a quest’arte ancora poco conosciuta e apprezzata in Italia. Credo che l’arte e la cultura siano un importante veicolo di cambiamento. Daisaku Ikeda scrive: «Può non essere facile riconoscere il potere della cultura, eppure la sua è una forza fondamentale, perché è in grado di trasformare il cuore degli esseri umani. […] Perché mai fare l’errore di considerare solo la superficie di un corso d’acqua? Le correnti più profonde sono molto più importanti per conoscere la natura di un fiume!» (Cultura, arte e natura, esperia, pag. 20).